Di chi sono gli iscritti del Movimento 5 Stelle?

La domanda è: a chi appartengono gli iscritti del Movimento? All’associazione “Movimento Cinque Stelle” o all’azienda nei cui server sono contenuti tutti quei dati? E chi li gestirà in futuro quando sarà pronto un nuovo statuto del Movimento con precisi incarichi?

Questione spinosa che Casaleggio, Grillo e il Direttorio hanno già dimostrato di non saper gestire: gli espulsi, infatti, sono stati riammessi, a Roma e Napoli in particolare, perché l’Associazione Movimento Cinque Stelle, quella nata nel 2012 che aveva proceduto all’allontanamento dei militanti, non è quella a cui questi sono iscritti, cioè la “non-associazione” sancita dal “non-statuto”. Una presa in giro, nel migliore dei casi; un tentativo di furbata, nel peggiore, ma che certamente rispecchia la gestione che aveva in mente Gianroberto: “Io ho ragione, le leggi devono necessariamente stabilirlo; se non lo fanno, fate in modo che lo facciano”.

E’ su questo che si è consumata la più grande frattura sull’asse Milano-Genova, anche a causa del danno di immagine che queste vicende stanno provocando a Grillo.

Da un lato, per la Casaleggio conoscere il comportamento sulla piattaforma e sul blog degli iscritti ha un enorme valore commerciale. In questo caso, vale la massima molto nota nel settore: quando un servizio online è gratis, significa che il prodotto sei tu. Difficile che l’azienda rinunci a qualcosa di così importante, costruito in oltre dieci anni di campagne virali, spettacoli di Grillo, tour politici nei quali ha investito un patrimonio.

Dall’altro, sapere come la pensino gli iscritti di un certo territorio, su un determinato tema, o perfino gli stessi parlamentari, è un vantaggio competitivo non indifferente sia verso l’interno che verso l’esterno, per chiunque voglia guidare il partito: Di Maio, o chi per lui, se vuole prendere in mano le redini del Movimento deve avere accesso a quei dati. Sapere chi, nel gruppo parlamentare, ha votato pro o contro il direttorio, pro o contro l’abolizione del reato di clandestinità, pro o contro le unioni civili, ad esempio, farebbe la differenza.

Il golpe di Davide

Poi arriva Davide Casaleggio.

Che a colazione prende sempre brioche e succo di pera.

Ogni giorno, brioche e succo di pera.

Tanto è pieno di idee Gianroberto, tanto è metodico suo figlio Davide.
L’uomo che adesso ha le chiavi e i codici del Movimento Cinque Stelle è il consigliere più fidato del padre “a cui si affida tanto, nel bene e nel male” spiegano sempre dai piani alti del Movimento, ma senza la stessa passione politica e lucidità di visione.

Il padre ha i sogni.

Il figlio li traduce in tattiche e azioni pratiche.

Il padre fa riunioni a porte aperte.

Il figlio fa riunioni a porte chiuse.

Il massimo frutto di questo sforzo analitico è il libro “Tu sei Rete”: lì sono descritte le teorie alla base dell’organizzazione del M5S.

Lui, Davide, dà l’ok alle comunicazioni che partono dallo “Staff di Beppe Grillo”; lui tiene i contatti con i consulenti esterni, in particolare lo studio Montefusco, quello che spedisce, tra l’altro, le lettere di espulsione, cioè di revoca dell’utilizzo del logo del MoVimento che colpisce iscritti, eletti o interi gruppi sul territorio.

Lui è il figlio del capo, sta simpatico a pochi e si scontra spesso con gli altri soci; all’occorrenza fa valere il suo status. Campione di scacchi da bambino, persona riservata e abitudinaria.

Il padre è autorevole.

Il figlio impone metodi e obiettivi. “Conta l’obiettivo” è il suo motto.

Oggi Gianroberto non c’è più.

C’è solo Davide. E’ lui che, da presidente della Casaleggio Associati e dell’Associazione Rousseau, nata dopo la scomparsa di Gianroberto, dovrà gestire e risolvere il conflitto di interessi — evidente — tra le attività commerciali e quelle politiche che amministra.

Prima che sia troppo tardi.

Prima che i “movimenti ad alti livelli” nel gruppo parlamentare, a cui si riferisce il già citato dirigente, gli impongano quella “chiarezza di impostazione di tutta la struttura” che non si può permettere di subire, ma deve governare.

C’è gran confusione tra Movimento e blog, tra il ruolo della Casaleggio e quello di Grillo, le ambizioni sfrenate dei rampanti membri del Direttorio e una base sempre più disorientata.

La Casaleggio Associati gestisce alcune attività editoriali commerciali come i portali TzeTze (vero e proprio sito acchiappa click, e su questo ci ritorneremo….) e La Fucina. I proventi vanno ovviamente all’azienda. Casaleggio senior aveva sempre negato una relazione tra questi siti e l’attività politica dei Cinque Stelle, ma proprio il blog di Grillo e la sua pagina Facebook ne sponsorizzavano i contenuti, creando non pochi imbarazzi tra i parlamentari.

Davide e soci non sono amati nel Movimento e le loro azioni, all’interno del gruppo parlamentare, sono oggetto di grandi discussioni. Si pretende chiarezza “ai più alti livelli”. Ma in realtà dietro questa richiesta ognuno si gioca la sua partita.

Obiettivo: i dati del portale Rousseau, di cui Beppe Grillo è responsabile legale, ma che sono amministrati dalla Casaleggio Associati e che, soprattutto, fanno gola ai parlamentari, impegnati nella loro scalata al Movimento.

Casaleggio Associati non è un ente di beneficenza, è una srl. E ha un evidente interesse al controllo di questi dati: conoscere il “profilo” delle persone che hanno a che fare con il Movimento, chi sono, dove abitano, come votano, quanto donano, ha un valore commerciale potenziale incalcolabile. Può essere utile, ad esempio, a indirizzare meglio gli investimenti pubblicitari delle altre attività editoriali: se hai donato spesso, o sei molto attivo sul portale, sarà presumibilmente più probabile che tu sia predisposto ad acquistare un libro che tratta i temi a cui sei interessato.

La rivolta

La Dc aveva le correnti.
Il Pci aveva le correnti.
E certo, anche il Pd, per dire, ha le sue correnti. Così tante che per orientarsi è necessaria una mappa.

Il Movimento Cinque Stelle, no.
Il Movimento è nato come una specie di religione. Lo diceva spesso Gianroberto Casaleggio: “Il nostro messaggio è come quello di Gesù Cristo”.
C’è un verbo e il verbo è il blog. C’è una trinità, venerata: Grillo, Casaleggio e lo spirito santo sotto forma della Rete, che tutto contempla, tutto osserva, tutto alla fine decide. Per tutti.
Mica è un partito, il Movimento Cinque Stelle. E’ qualcosa di più. E’ come un tempio.
E quindi, niente correnti.
Evitare gli scontri interni, la diversità di vedute, ridurre tutte le voci critiche ad una specie di coro unanime.
Evitare a priori le polemiche. Allontanare subito chi si discosta dal “verbo”, chi può avere anche una propria personalità ingombrante. Tanti ricordano ancora il periodo in cui Beppe Grillo aveva appoggiato le candidature di Sonia Alfano a presidente della Regione Sicilia, e poi della stessa Alfano e di Luigi De Magistris al Parlamento Europeo. Ma i du non davano garanzie di essere apostoli ubbidienti, e furono rinnegati in poco tempo.

No, non ha correnti il Movimento Cinque Stelle. Casaleggio i contrasti non solo non voleva risolverli: lui eliminava il problema a monte, non prendeva mai in considerazione che ci fossero divisioni o anche dubbi all’interno dei Cinque Stelle.

“Al primo dubbio, nessun dubbio”, diceva.

Poi è arrivato Luigi Di Maio.
Di Maio, l’uomo che si è fatto corrente, il parlamentare che in parallelo sta creando una sua struttura nel Movimento. Ha una voglia incontenibile di entrare a Palazzo Chigi, in televisione è uno che buca, è ricevuto dagli ambasciatori, fa il tutto esaurito nelle piazze, gli piace la mondanità. Incontenibile, inarrestabile.
Nella santa trinità del Movimento, Di Maio è il quarto incomodo, il nuovo profeta.
Più sale la sua popolarità, però, più aumenta il malessere nel Movimento, dove sono in molti, soprattutto tra i parlamentari, a non capire cosa stia succedendo, a vedere nell’ascesa di questo trentenne il tradimento di alcuni dei valori fondativi.
I sospiri diventano mugugni, i mugugni proteste.
E per la prima volta succede che vengono a galla malumori.
Non sono lamentele solitarie: molti parlamentari, anche agli antipodi tra loro, cominciano a vedersi e a riunirsi, scoprendo di avere in comune un disagio che non può essere più taciuto.
Di riunione in riunione, di incontro in incontro, monta lo scontento.

Il tempio costruito in tanti anni con fatica da Casaleggio e Grillo comincia a sgretolarsi.
Fatidico è il mese di Settembre 2016.
Il Sindaco M5S di Roma, Virginia Raggi, ha appena sbattuto la porta in faccia al Coni sulla candidatura della Capitale alle Olimpiadi del 2024.

Il Ministero della Salute è nell’occhio del ciclone per la campagna sul “Fertility Day”.

I Comuni protestano per il massiccio arrivo di migranti. L’estate è finita.
Sul tempio non splende più il sole. Va in scena la grande rivolta.

Party like a Russian

Questo è un estratto di Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle, disponibile su Amazon, Google Play, iBooks, IBS, e Kobo

Alessandro Di Battista

“Party like a Russian / End of discussion…” canta Robbie Williams nella hit del momento, “Party like a Russian”. Ma non c’è solo lui ad avere l’ambizione di partecipare a certe feste alla corte dell’imperatore Putin. Anche Alessandro Di Battista, Ministro degli Esteri in pectore in un possibile governo dei Cinque Stelle, ha il suo Russian Style. E mica lo nasconde.

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“Che ne dite di farci dare una mano per la campagna sul referendum costituzionale dall’ambasciatore russo? Con tutto quello che stiamo facendo per loro…”

A parlare così è proprio Di Battista. Parole pronunciate negli uffici del gruppo parlamentare tra ottobre e novembre 2016, quando ancora non erano uscite inchieste sulle affinità tra la propaganda pro-Putin e quella del M5S.

Parole che raccontano un contesto, quello internazionale, che vede un attivismo frenetico del Movimento per farsi conoscere — e riconoscere — dall’establishment in Europa e nel mondo. Stiamo parlando di uno dei nodi meno conosciuti della storia del Movimento, quello riguardante la politica estera. Nel programma infatti non c’è nemmeno una riga al riguardo.

Ma perché Di Battista pensa ad alta voce di chiedere aiuto ai russi per la battaglia sul referendum? Cosa c’entra la Russia con l’Italia? E soprattutto, cosa c’entra Putin con i Cinque Stelle?

Fino al 2014, in coincidenza con la guerra in Ucraina, la Russia e Putin erano fuori dagli interessi del Movimento. Anzi, peggio. Putin veniva definito uno “zar dagli affari oscuri”.

Anna Politkovskaya

C’era una volta , prima dello sbarco in Parlamento, il Movimento che esaltava i movimenti di contestazione americani, elevava a suo nume Julian Assange, eleggeva come icona dell’informazione il nemico pubblico numero uno di Putin, Anna Politkovskaja, e le proteste laiche e libertarie delle Pussy Riot; guardava infine con simpatia ai proclami della primavera araba.

Quando Vladimir Putin arriva in Italia, fresco dell’approvazione della prima legge “ammazza blog”, l’accoglienza del Movimento è gelida: “Noi chiediamo che il governo venga a riferire in aula al più presto sugli oscuri affari con lo zar russo’’ recita una nota del gruppo alla Camera.

Fino a tutto il 2013 Putin e la Russia erano davvero lontani dall’orizzonte del Movimento: uno che fa affari oscuri, che discrimina i gay, che uccide la democrazia sul web.


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Algoritmo per i dissidenti: magari fosse una battuta

Luigi Di Maio ha liquidato come una battuta da comico le parole con cui Grillo ha ironizzato, di nuovo, sulle espulsioni nel MoVimento 5 Stelle: “Faremo un algoritmo, se un parlamentare che hai votato non segue il programma è automaticamente espulso”.

Sarà anche una battuta, ma pochi si sono resi conto che gli strumenti che usa il Movimento permettono un controllo molto preciso sui comportamenti e le scelte di ciascun iscritto.

Rousseau, la piattaforma sviluppata da Casaleggio Associati e “messa a disposizione gratuitamente” è proprietaria: solo il produttore conosce il codice, quindi non è possibile escludere che gli amministratori della piattaforma, che siano i tecnici o i responsabili politici dell’Associazione Rousseau, possano verificare le attività di ciascun iscritto, parlamentari inclusi.

Se queste informazioni fossero a disposizione di tutta la comunità, non ci sarebbe nessun problema. Ma visto che sono poche le persone ad avere accesso a tutti i dati, e che l’informazione è potere, c’è un evidente squilibrio. Questo è uno snodo fondamentale per fare chiarezza sui criteri — del tutto arbitrari — per i quali molte liste a cinque stelle sono state respinte: senza certificazione non possono usare il logo e quindi candidarsi.

Sarebbe interessante sapere, ad esempio, quanti candidati sindaco respinti dallo “Staff” avevano votato contro la formazione del direttorio nella consultazione sul Blog del 2014, e quanti di quelli certificati avevano votato a favore.

Solo lo Staff potrebbe fare chiarezza: e questo è esattamente il problema.

Dal blog ai funzionari di partito

Sembra che Casaleggio Associati abbia iniziato a liberarsi di alcuni costi legati alla gestione del Movimento 5 Stelle, senza però rinunciare ai ricavi.

Pietro Dettori ha aggiornato il suo profilo LinkedIn, annunciando di aver lasciato Casaleggio Associati per diventare “Responsabile editoriale” dell’Associazione Rousseau, cioè del Blog delle Stelle, fu Blog di Beppe Grillo.

L’Associazione e il Blog delle Stelle dovevano servire a chiarire e semplificare l’organizzazione del Movimento 5 Stelle e i suoi rapporti con l’Azienda: se possibile, la situazione ad oggi è invece ancora più complessa.

I soci dell’Associazione sono Davide Casaleggio, Massimo Bugani e David Borrelli. Lo Statuto non è ancora pubblico, quindi non sappiamo quali siano obiettivi, sede e organi amministrativi.

Da alcune settimane il Blog di Beppe Grillo si sta trasformando nel Blog delle Stelle e sta raccogliendo i finanziamenti per sé e per l’Associazione. Al momento sono dichiarati 231.248€ da 7.415 donatori.

In realtà, la homepage di beppegrillo.it è sempre la stessa, pubblicità incluse, mentre le pagine dei singoli post hanno il brand “Il Blog delle Stelle”. Gli annunci pubblicitari sui post sono solo sulla versione mobile e non è dichiarato a chi vanno i ricavi. In fondo ai post, però, sono ancora indicati i credits a Casaleggio Associati e il link per chi vuole inserire pubblicità.

Il Blog delle Stelle rimane collegato ai profili social di Beppe Grillo, che continuano a sponsorizzare i prodotti commerciali dell’azienda, tzetze.it e lafucina.it, così come sul Blog compaiono i video de la-cosa.it: sugli ultimi due siti è presente il numero di Partita Iva di Casaleggio Associati, mentre su tzetze.it è indicata la stessa Azienda come responsabile del trattamento dei dati personali.

In conclusione: Casaleggio Associati pare aver solo spostato i costi di un suo dipendente all’Associazione finanziata dai sostenitori del Movimento, continuando a beneficiare dei ricavi dei siti pubblicizzati dai profili social di Beppe Grillo e dall’ibrido Blog di Beppe Grillo / Blog delle Stelle.

Come Facebook ha cambiato il M5S

Foto da galloluigi.wordpress.com

Dai MeetUp alle fan page, dall’organizzazione alla propaganda

Uno studio condotto dall’Università La Sapienza, coordinato da Antonio Putini e ripreso nei giorni scorsi da La Stampa, rivela come l’utilizzo da parte degli attivisti del Movimento 5 Stelle della piattaforma MeetUp.com sia scemato, fino a diventare marginale, nel corso degli ultimi anni.

Come già notava Federico Mello due anni fa nel suo Un altro blog è possibile (Imprimatur), l’abbandono dello strumento di organizzazione storico del Movimento è dovuto anche a ragioni tecnologiche: ad un certo punto, in Italia è arrivato Facebook. Il social network di Zuckerberg riesce meglio di qualsiasi altra piattaforma ad appropriarsi di una risorsa preziosissima, poiché limitata, degli utenti: il tempo. Per chi svolge un’attività online, che sia produrre e distribuire notizie oppure organizzare un movimento politico, il tempo che gli utenti passano sulla propria piattaforma è un parametro importante per il successo del proprio prodotto. Facebook riesce benissimo a trattenerci sul suo sito e sulla sua app, aggiungendo funzioni, semplificando i processi, stimolando l’inserimento di foto, video, commenti e, di recente, anche “reazioni” emotive.

Diversamente, gli strumenti di MeetUp.com tendono a promuovere la discussione, la condivisione di documenti e l’organizzazione di incontri; soprattutto, spingono alla ricerca di partecipanti motivati anche attraverso il filtro, decisivo, di una piccola somma da versare per aprire un gruppo. Il prezzo, però è la difficoltà di trattenere un grande numero di persone sul portale.
La migrazione da uno strumento all’altro è stata inevitabile, come lo è per molte altre attività, dall’editoria al marketing, e comporta delle conseguenze.

Su Facebook si acquisisce tanta più influenza quanto più si è in grado di provocare reazioni, condivisioni, commenti: ciò promuove un’organizzazione verticale basata sulla popolarità, molto diversa da quella più complessa, ma più diffusa, che aveva inizialmente caratterizzato il Movimento dei MeetUp, dove il valore aggiunto era la capacità di organizzare e motivare un gruppo verso un determinato obiettivo.

Non è strano, per un movimento politico nato e cresciuto in Rete, che lo strumento utilizzato non sia neutro rispetto alla sua organizzazione.

Nel tempo, la comunicazione è divenuta più determinate dei contenuti: lo stesso studio citato prima sottolinea la scarsa partecipazione degli iscritti ai sondaggi e alla discussione delle leggi proposte dai parlamentari.

Le persone più popolari sul social network sono diventate le più influenti politicamente e, infine, hanno accompagnato questo processo con un atto ufficiale, pubblicato sul blog di Grillo a luglio 2015, in cui nei fatti dichiarano superata l’esperienza dei MeetUp, relegandoli a un ruolo operativo e separandone l’attività da quella del Movimento stesso.
È quello il momento, stando alle conclusioni dello studio, in cui crolla il numero di gruppi e cessa la maggior parte dell’attività dei MeetUp.


Inizialmente pubbicato su www.ilfattoquotidiano.it il 20 maggio 2016.

Il MoVimento fallito, dalle unioni civili a Pizzarotti

I parlamentari M5S manifestano in aula contro l’omofobia

Ciò che sta succedendo nel MoVimento esprime lo stesso problema: il suo rapporto con le regole

Il MoVimento avrebbe dovuto essere le sue regole: nessuna ideologia, niente soluzioni preconfezionate, solo una cornice di poche, semplici regole all’interno delle quali organizzare il consenso, scrivere il programma, prendere decisioni.

Proprio sulle decisioni da prendere, per motivi che prima o poi andranno raccontati, il progetto è fallito. Due esempi per tutti: nessuno sa chi e come ha deciso di rinunciare a votare le unioni civili; nessuno sa chi e come ha deciso di sospendere Federico Pizzarotti.

Eppure, proprio a inizio legislatura c’era stato un episodio dopo il quale Grillo e Gianroberto Casaleggio avevano provato a trarre una lezione per il futuro: l’elezione del presidente del Senato Grasso.

Il Movimento era stato messo di fronte a una scelta impossibile: scegliere tra Grasso, del Partito Democratico, e Schifani. Ci fu una spaccatura, ci furono litigi e alla fine i senatori siciliani M5S decisero di votare Grasso contro l’indicazione del gruppo, che aveva indicato Orellana.

Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, foto da Huffington Post

Fu pubblicato un post sul blog di Grillo in cui, in sintesi, i garanti spiegavano come la soluzione dell’impasse fosse scritta nei regolamenti: sarebbe bastato votare quale fosse la linea e rispettare l’esito del voto, anche fosse stato Grasso. Applicare le regole, appunto.

In seguito, questo metodo fu applicato in molte occasioni, anche allargando il voto a tutti gli iscritti, quando possibile.

Poi, però, si cominciò ad applicare le regole per finta: il processo di votazioni sulla legge elettorale fu fatto terminare fuori tempo massimo, quando ormai era pronto l’Italicum e il MoVimento non aveva più voce in capitolo.

Infine, dopo l’istituzione del direttorio, si è smesso proprio di applicarle. Niente — o quasi — assemblee congiunte dei gruppi parlamentari, niente — o quasi — votazioni sul blog.

E così, sulle unioni civili, alcuni senatori del MoVimento prendono accordi col PD salvo decidere, senza voti né assemblee, di lasciare libertà di coscienza e astenersi sul voto finale. Non si sa chi l’abbia deciso, non si sa perché.

Federico Pizzarotti, foto da blitzquotidiano.it

Mentre su Pizzarotti si applicano in maniera discrezionale addirittura regole inesistenti, mai codificate, dopo averlo isolato con atteggiamenti che in qualunque azienda sarebbero qualificati come mobbing: non si risponde ai messaggi e alle telefonate, non si invita il sindaco agli eventi ufficiali, non gli si permette di raccontare la sua attività attraverso il portale-sede del MoVimento, il Blog.

Senza la condivisione e l’applicazione delle proprie regole, il MoVimento forse non muore, ma di certo diventa qualcosa di diverso, anche rispetto a quel principio per il quale nessuno deve essere lasciato indietro.

Senza regole, le decisioni non le prende la comunità né chi ha ragione: le prende chi ha più influenza o più carisma, chi ha più mezzi o più potere da distribuire. La regola diventa una sola, non scritta: non perdere voti, a qualunque costo.

Il MoVimento, numeri alla mano, ha la possibilità di vincere le prossime elezioni politiche; ma senza regole e senza la capacità di amministrare le complessità non sarà in grado di cambiare in meglio il Paese. Problemi complessi richiedono soluzioni complesse, perché quelle semplici sono pericolose quando non inefficaci.

Bufale, ecco perché sono redditizie.

Foto: mobify.com

E pericolose

Pubblicato inizalmente su www.ilfattoquotidiano.it il 6 maggio 2016

Laura Boldrini: “Ora di Corano in tutte le scuole”.
Egiziano entra al bar, rapina l’incasso e stupra le due bariste.
Arriva la conferma: quel detergente intimo provoca il cancro!

Queste notizie hanno due cose in comune: sono false e diventano virali sfruttando le debolezze emotive dei lettori.
 Abbiamo da poco festeggiato i trent’anni di Internet in Italia, celebrando anche la libertà di informare e informarci che la Rete ha portato: tutto molto bello, ma è ora di denunciare anche i pericoli che questa libertà, o meglio l’incapacità di gestirla, comporta.
 La circolazione in rete di bufale inventate di sana pianta è cosa nota soprattutto agli addetti ai lavori, ma temo che tra gli utenti — che ne sono le prime vittime, a volte in senso letterale — la portata del fenomeno sia tutt’altro che chiara.
Come, chi e perché diffonde bufale?

Il come è presto detto: inventare una notizia è semplice e veloce, scovarne una vera e verificarla richiede professionalità, tempo e soldi. Per ogni notizia vera e verificata se ne producono decine false. Le bufale vengono solitamente pubblicate su un sito e rilanciate sui social network e spesso hanno l’apparenza di notizie diffuse da una vera testata giornalistica.

Titoli come quelli citati prima diventano subito virali perché suscitano scalpore, rabbia o paura: chi legge è indotto a diffonderli, convinto in buona fede di rendere un servizio di informazione ai propri contatti.
Chi produce queste false notizie? David Puente di debunking.it — un sito che si occupa di verificare e smentire le false notizie segnalate — spiega che in Italia sono poche persone a gestire molti dei siti di bufale più frequentati, che fanno il verso alle testate più note storpiandone il nome per confondere il lettore.
Veniamo al perché. Scrivere e diffondere bufale è redditizio: costi di produzione estremamente bassi ed elevata diffusione dei contenuti permettono discreti profitti grazie ai classici banner pubblicitari.

C’è però un’altra spiegazione. Alcuni siti sono notoriamente legati, più o meno direttamente, a forze politiche che traggono vantaggio nel porsi come alternativa al “sistema delle lobby”. Ma è spesso un’illusione.
Ad esempio: se convinco, tramite presunte “iniziative editoriali”, un certo numero di persone che la lobby del farmaco impone le coperture vaccinali o le cure chemioterapiche per vili interessi economici a discapito della comunità, creo una base di consenso che posso sfruttare assumendo una linea di scetticismo priva di base scientifica (come “vaccinare meno, vaccinare meglio”). Il più vecchio tra i metodi di propaganda: indicare un falso problema e porsi come unica soluzione, con l’aggravante di essere pericoloso per la salute pubblica fino a causare morti. E il più vile, perché colpisce i più deboli, chi non ha gli strumenti culturali per verificare la qualità di certe notizie, specialmente quelle a carattere scientifico.

Il giornalismo, a fronte di tutto ciò, non può e non deve rimanere passivo: è un momento difficile per l’industria dell’informazione anche perché le due risorse più preziose, i soldi necessari a fare buon giornalismo e l’attenzione dei lettori, sono drenate da quelle realtà.
Se prima il compito dei giornalisti era trovare e riportare le notizie, adesso non basta più: il dibattito pubblico è drogato da queste pratiche, quando si parla di salute come quando si parla di immigrazione, ed è compito anche del giornalismo denunciarle e contrastarle. Sia nell’interesse dei lettori che nell’interesse dei giornalisti, per la loro stessa sopravvivenza.


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Privacy, a chi affidiamo i nostri dati?

Immagine tratta da Wikipedia

La sacrosanta battaglia di Apple

Pubblicato inizalmente su www.ilfattoquotidiano.it il 19 Aprile 2016

La notizia è che l’Fbi aveva mentito: non era vero, come sosteneva, che per recuperare i dati dall’iPhone dell’attentatore di San Bernardino fosse indispensabile l’intervento di Apple. I Federali, infatti, si sono rivolti “hacker professionisti”, come riporta The Guardian. La domanda da porsi è: perché hanno mentito? Il sistema informatico invulnerabile non esiste: si può rendere difficile l’accesso ai dati di uno smartphone o un computer, ma chi ha le risorse e le giuste competenze, o anche solo un po’ d’astuzia, prima o poi riesce a violarlo. L’Fbi voleva stabilire un precedente giuridico: poter accedere a un dispositivo ogni volta che fosse ritenuto di interesse pubblico.


Apple, com’è noto, si è subito rifiutata di produrre un sistema facilmente violabile per semplificare l’accesso ai dati, ed è naturale pensare che questa posizione c’entri poco con la volontà di difendere un principio etico e molto con quella di difendere il proprio business. Tuttavia, la vicenda porta a chiedersi se, in questo caso, gli interessi economici dell’azienda coincidano con l’interesse pubblico di difendere la privacy e i dati sensibili degli utenti. La mia risposta è: sì, per almeno due motivi.

Primo: i dati raccolti dai dispositivi che usiamo e indossiamo vengono utilizzati anche per scopi nobili. Apple, ma altri seguiranno, ha avviato due progetti di ricerca medica, ResearchKit e CareKit, ai quale si aderisce su base volontaria e grazie ai quali possiamo mettere a disposizione della ricerca le nostre abitudini sportive, frequenza cardiaca, peso, altezza, abitudini alimentari e addirittura il nostro profilo genetico. Nei prossimi anni, uno screening di tale portata permetterà di capire meglio molte patologie e condizioni tra le più diffuse, come Parkinson e autismo e, forse, di prevenirne altre come i disturbi cardiaci. Un progresso impensabile prima, senza Internet e il recente sviluppo tecnologico. Gli utenti continueranno a partecipare condividere i propri dati medici e genetici, i più sensibili dati personali, solo se li sapranno al sicuro, anonimi e inaccessibili da terzi, soprattutto da parte di autorità governative. E’ chiaro interesse di tutti che iniziative simili proseguano e prosperino.

Secondo: se si produce un software che permette di aggirare la sicurezza di smartphone e computer è più che probabile che finisca nelle mani sbagliate. Tutti i dispositivi, oggi, sono connessi a Internet e chiunque in qualunque parte del mondo, inclusi governi, polizie, dittatori e terroristi, potrebbe avere potenzialmente accesso ai nostri dati. Non è una bella prospettiva.
 Chi possiede i nostri dati personali prima o poi li userà: ogni volta che li forniamo a qualcuno, dobbiamo chiederci come questi dati possano essere usati nella peggiore delle ipotesi e se ci fidiamo dell’entità a cui li consegniamo.

Quando ci iscriviamo a un servizio, mettiamo un like su Facebook, tracciamo il nostro battito cardiaco e le nostre abitudini alimentari o rispondiamo a un sondaggio, il nostro comportamento viene registrato sui server che gestiscono quel servizio. Gli amministratori del server, anche se non ne abbiamo la percezione, possono sapere cosa ci piace, se siamo in buona salute, come ci siamo espressi sulle questioni sottoposte. Dobbiamo chiederci: abbiamo la certezza che non verranno utilizzate per scopi diversi da quelli inizialmente previsti? Possiamo fidarci degli amministratori del sistema nel momento in cui lo utilizziamo? Siamo sicuri di poterci fidare anche di chi lo gestirà in futuro?

Ecco perché la battaglia di Apple e degli altri operatori del settore per difendere la sicurezza dei propri sistemi è sacrosanta e dovrebbe spingere tutti noi a pretendere chiarezza, trasparenza e professionalità a coloro ai quali decidiamo di consegnare la nostra vita digitale.


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