Il metodo Casalino spiegato bene

Ha fatto scalpore l’audio di Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio Conte e capo della comunicazione del Movimento 5 Stelle, nel quale ribadisce la linea del partito rispetto alla manovra finanziaria: i tecnici del Ministero del Tesoro fanno resistenza, li sostituiremo senza pietà.

Questa posizione era stata riportata sull’Huffington Post da Pietro Salvatori il 19 settembre, confermata da molti esponenti del Movimento e commentata un po’ da tutti i giornali.

Stamani, 22 settembre, Luciano Capone sul Foglio svela la fonte di questa indiscrezione: un audio di Rocco Casalino inviato ai giornalisti. Repubblica in mattinata lo diffonde e la notizia esplode.

A mio modo di vedere, la notizia non c’è: i metodi e i linguaggi di Casalino sono noti da anni e la posizione politica del Movimento sul tema era già emersa. Lo scalpore però ha il sapore di un tappo che forse sta saltando sul metodo Casalino: in questo senso è meritorio l’articolo di Capone, che permette di iniziare almeno a parlarne.

La domanda che molti si fanno è: ma come fa Casalino ad avere tutto questo potere? La risposta sta nel come gestisce i rapporti coi giornalisti, coi parlamentari e coi capi occulti del Movimento Gianroberto e Davide Casaleggio.

Partiamo dalla registrazione che sta circolando in queste ore per spiegare il rapporto con la stampa. Casalino ogni giorno invia un audio messaggio ai giornalisti con le notizie che ritiene utili siano pubblicate. A volte a una sola persona, a volte a un gruppo di volta in volta diverso. Il messaggio contiene spesso le “istruzioni” su come gradisce sia data la notizia, in questo caso dice “tu parla di fonti parlamentari” — il che, per inciso, ci fa capire che parla nella sua veste di capo della comunicazione del Movimento e non di portavoce del governo. Va detto con chiarezza che questo è ed è stato il modo di operare di tutti gli uffici stampa dei partiti in questi anni, maggioranza e opposizione.

La differenza rispetto ai suoi colleghi sta nel come gestisce il rapporto col partito, parlamentari e capi de facto cioè i Casaleggio. Il suo ruolo, da regolamento, era diretta emanazione dei “garanti” del Movimento, Grillo e Casaleggio; il suo ragionamento nei loro confronti è stato il seguente: «per essere efficace nel mio lavoro, devo avere il controllo su quali notizie escono, da chi e verso quali giornalisti» chiedendo dunque mano libera sulle notizie da dare, chi mandare in televisione, quali parlamentari far intervistare. Trova un accordo in tal senso prima con Gianroberto e poi con Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, ai quali ha riservato trattamenti speciali. Il primo è stato aiutato nella scalata, il secondo, di tanto in tanto, si vede aiutare nelle iniziative di Rousseau da qualche membro dell’ufficio comunicazione dei gruppi parlamentari.

Accentrati su di sé tutti i canali di comunicazione è stato facile poi diventare depositario di tutti i malumori, confidenze, sfoghi dei parlamentari, utilizzati sapientemente per consolidare ed accrescere la propria influenza. Evidente anche il motivo per cui è stato finora per lo più al riparo dalle curiosità dei giornalisti: senza l’autorizzazione di Casalino non ci sono interviste, indiscrezioni, ospitate in tv. Nulla di nulla. Chi sgarra, tra i parlamentari, è fuori — a meno di non possedere un patrimonio di informazioni tale da contrastare quello di Rocco, come ad esempio Laura Castelli.

Anche chi sgarra tra i giornalisti entra in lista nera: scavalcare o contraddire Casalino significa vedersi esclusi dal gioco. Pure io e Nicola Biondo siamo stati oggetto degli scambi previsti dalle regole del “codice Rocco” e abbiamo raccontato il caso di Lucia Annunziata.

Epico, in questo senso, il messaggio arrogante che fece trapelare nei confronti di Enrico Mentana quando nacque il governo Conte: un video registrato nel suo ufficio mentre comunica, in diretta, l’accordo raggiunto, vantandosi della reazione del direttorissimo.

Pochi, tra i giornalisti, vogliono fare la guerra totale a Casalino: non conviene. Il potere di Casalino svanirà quando tutti, o almeno una maggioranza qualificata numericamente e qualitativamente, smetteranno di pendere dalle sue labbra e non gli consentiranno più, come ha fatto ad esempio Gaia Tortora, di gestire le notizie come gli è stato permesso finora.

Bufale, ecco perché sono redditizie.

Foto: mobify.com

E pericolose

Pubblicato inizalmente su www.ilfattoquotidiano.it il 6 maggio 2016

Laura Boldrini: “Ora di Corano in tutte le scuole”.
Egiziano entra al bar, rapina l’incasso e stupra le due bariste.
Arriva la conferma: quel detergente intimo provoca il cancro!

Queste notizie hanno due cose in comune: sono false e diventano virali sfruttando le debolezze emotive dei lettori.
 Abbiamo da poco festeggiato i trent’anni di Internet in Italia, celebrando anche la libertà di informare e informarci che la Rete ha portato: tutto molto bello, ma è ora di denunciare anche i pericoli che questa libertà, o meglio l’incapacità di gestirla, comporta.
 La circolazione in rete di bufale inventate di sana pianta è cosa nota soprattutto agli addetti ai lavori, ma temo che tra gli utenti — che ne sono le prime vittime, a volte in senso letterale — la portata del fenomeno sia tutt’altro che chiara.
Come, chi e perché diffonde bufale?

Il come è presto detto: inventare una notizia è semplice e veloce, scovarne una vera e verificarla richiede professionalità, tempo e soldi. Per ogni notizia vera e verificata se ne producono decine false. Le bufale vengono solitamente pubblicate su un sito e rilanciate sui social network e spesso hanno l’apparenza di notizie diffuse da una vera testata giornalistica.

Titoli come quelli citati prima diventano subito virali perché suscitano scalpore, rabbia o paura: chi legge è indotto a diffonderli, convinto in buona fede di rendere un servizio di informazione ai propri contatti.
Chi produce queste false notizie? David Puente di debunking.it — un sito che si occupa di verificare e smentire le false notizie segnalate — spiega che in Italia sono poche persone a gestire molti dei siti di bufale più frequentati, che fanno il verso alle testate più note storpiandone il nome per confondere il lettore.
Veniamo al perché. Scrivere e diffondere bufale è redditizio: costi di produzione estremamente bassi ed elevata diffusione dei contenuti permettono discreti profitti grazie ai classici banner pubblicitari.

C’è però un’altra spiegazione. Alcuni siti sono notoriamente legati, più o meno direttamente, a forze politiche che traggono vantaggio nel porsi come alternativa al “sistema delle lobby”. Ma è spesso un’illusione.
Ad esempio: se convinco, tramite presunte “iniziative editoriali”, un certo numero di persone che la lobby del farmaco impone le coperture vaccinali o le cure chemioterapiche per vili interessi economici a discapito della comunità, creo una base di consenso che posso sfruttare assumendo una linea di scetticismo priva di base scientifica (come “vaccinare meno, vaccinare meglio”). Il più vecchio tra i metodi di propaganda: indicare un falso problema e porsi come unica soluzione, con l’aggravante di essere pericoloso per la salute pubblica fino a causare morti. E il più vile, perché colpisce i più deboli, chi non ha gli strumenti culturali per verificare la qualità di certe notizie, specialmente quelle a carattere scientifico.

Il giornalismo, a fronte di tutto ciò, non può e non deve rimanere passivo: è un momento difficile per l’industria dell’informazione anche perché le due risorse più preziose, i soldi necessari a fare buon giornalismo e l’attenzione dei lettori, sono drenate da quelle realtà.
Se prima il compito dei giornalisti era trovare e riportare le notizie, adesso non basta più: il dibattito pubblico è drogato da queste pratiche, quando si parla di salute come quando si parla di immigrazione, ed è compito anche del giornalismo denunciarle e contrastarle. Sia nell’interesse dei lettori che nell’interesse dei giornalisti, per la loro stessa sopravvivenza.


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Panama Papers: pubblicare tutto.

Ieri, il Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi, di cui fa parte l’Espresso per l’Italia, ha pubblicato una piccola parte dei Panama Papers: un anno fa, il funzionario di una singola società panamense che si occupa di creare società offshore per clienti in tutto il mondo, ha condiviso con l’associazione più di 11 milioni di documenti riguardanti queste attività. In poche parole, la prova dei conti nei paradisi fiscali di centinaia di migliaia di persone, anche attuali o precedenti capi di Stato e di governo, in tutto il mondo. Per chi volesse approfondire, qui l’inchiesta de l’Espresso.

I Panama Paper sono la più grande fuga di notizie mai avvenuta (Fonte)

Mi interessa sottolineare il fatto che questi documenti non sono stati, e con tutta probabilità non saranno, pubblicati integralmente. Perché? Ed è giusto?

La risposta l’aveva data già in passato lo stesso consorzio: per motivi di privacy.

La questione si era presentata anche nel 2010, con il primo grosso rilascio di documenti secretati da parte di Wikileaks, e ben raccontato nel film “Il Quinto Potere”, tratto dal libro “Inside Wikileaks”: in quel caso pubblicare tutto avrebbe significato, oltre a svelare la verità sulle guerre degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq, mettere in pericolo la vita di infiltrati e informatori in tutto il mondo.

Locandina del film “Il Quinto Potere”

Premesso che possedere società all’estero, anche in paradisi fiscali, non è di per sé illecito, questa volta il problema è diverso: non credo ci sia pericolo di vita per le persone coinvolte, nel caso le informazioni fossero interamente pubblicate. Il problema è deontologico, per i giornalisti, che dovrebbero pubblicare solo ciò che riguarda l’interesse pubblico e tutelare coloro che quei conti e quelle società le hanno regolarmente denunciate nel loro paese.

Tuttavia, ci sono due considerazioni da fare.

Primo: l’inchiesta è solo la punta dell’iceberg, perché riguarda un singolo dipendente che passa alla stampa documenti di una singola società. Se qualcuno dovesse rifarlo, e certamente accadrà, ma invece che al Consorzio passasse tutto a Wikileaks, la prudenza sarà stata comunque vana.

Secondo: siamo costretti a fidarci della buona fede del consorzio e dei giornalisti che ne fanno parte. Se è vero che non tutti quei documenti potrebbero essere di interesse pubblico, è vero che chi può accedere a documenti segreti detiene un grande potere. Potrebbero non essere di interesse pubblico adesso, ma potrebbero diventarlo domani, ad esempio se uno dei titolari di queste società decidesse di dedicarsi alla politica, oppure se decidesse di non farlo sapendo che quei documenti potrebbero uscire.

Nessuno può garantirci, peraltro, che qualche file non sia divulgato a tutela gli interessi degli editori coinvolti nel Consorzio, se non, appunto, la deontologia professionale dei giornalisti.

C’è, infine, un altro rischio: che lo stesso Consorzio resti vittima di una fuga di notizie. I giornalisti coinvolti nell’inchiesta sono centinaia, centinaia le testate coinvolte, di decine di paesi diversi. Molti di più, tra segretari e tecnici, sono sicuramente in possesso di questi documenti. Nessuno può garantire che non usciranno mai, e nessuno può tutelare tutte le persone coinvolte da pressioni o corruzione: quante sono le aziende interessate a far uscire notizie sui concorrenti, e quanto sarebbero disposte a pagare, o cosa sarebbero disposte a fare?

C’è un solo modo per evitare pericoli e abusi: pubblicare tutto.


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