Ieri, il Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi, di cui fa parte l’Espresso per l’Italia, ha pubblicato una piccola parte dei Panama Papers: un anno fa, il funzionario di una singola società panamense che si occupa di creare società offshore per clienti in tutto il mondo, ha condiviso con l’associazione più di 11 milioni di documenti riguardanti queste attività. In poche parole, la prova dei conti nei paradisi fiscali di centinaia di migliaia di persone, anche attuali o precedenti capi di Stato e di governo, in tutto il mondo. Per chi volesse approfondire, qui l’inchiesta de l’Espresso.
Mi interessa sottolineare il fatto che questi documenti non sono stati, e con tutta probabilità non saranno, pubblicati integralmente. Perché? Ed è giusto?
La risposta l’aveva data già in passato lo stesso consorzio: per motivi di privacy.
La questione si era presentata anche nel 2010, con il primo grosso rilascio di documenti secretati da parte di Wikileaks, e ben raccontato nel film “Il Quinto Potere”, tratto dal libro “Inside Wikileaks”: in quel caso pubblicare tutto avrebbe significato, oltre a svelare la verità sulle guerre degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq, mettere in pericolo la vita di infiltrati e informatori in tutto il mondo.
Premesso che possedere società all’estero, anche in paradisi fiscali, non è di per sé illecito, questa volta il problema è diverso: non credo ci sia pericolo di vita per le persone coinvolte, nel caso le informazioni fossero interamente pubblicate. Il problema è deontologico, per i giornalisti, che dovrebbero pubblicare solo ciò che riguarda l’interesse pubblico e tutelare coloro che quei conti e quelle società le hanno regolarmente denunciate nel loro paese.
Tuttavia, ci sono due considerazioni da fare.
Primo: l’inchiesta è solo la punta dell’iceberg, perché riguarda un singolo dipendente che passa alla stampa documenti di una singola società. Se qualcuno dovesse rifarlo, e certamente accadrà, ma invece che al Consorzio passasse tutto a Wikileaks, la prudenza sarà stata comunque vana.
Secondo: siamo costretti a fidarci della buona fede del consorzio e dei giornalisti che ne fanno parte. Se è vero che non tutti quei documenti potrebbero essere di interesse pubblico, è vero che chi può accedere a documenti segreti detiene un grande potere. Potrebbero non essere di interesse pubblico adesso, ma potrebbero diventarlo domani, ad esempio se uno dei titolari di queste società decidesse di dedicarsi alla politica, oppure se decidesse di non farlo sapendo che quei documenti potrebbero uscire.
Nessuno può garantirci, peraltro, che qualche file non sia divulgato a tutela gli interessi degli editori coinvolti nel Consorzio, se non, appunto, la deontologia professionale dei giornalisti.
C’è, infine, un altro rischio: che lo stesso Consorzio resti vittima di una fuga di notizie. I giornalisti coinvolti nell’inchiesta sono centinaia, centinaia le testate coinvolte, di decine di paesi diversi. Molti di più, tra segretari e tecnici, sono sicuramente in possesso di questi documenti. Nessuno può garantire che non usciranno mai, e nessuno può tutelare tutte le persone coinvolte da pressioni o corruzione: quante sono le aziende interessate a far uscire notizie sui concorrenti, e quanto sarebbero disposte a pagare, o cosa sarebbero disposte a fare?
C’è un solo modo per evitare pericoli e abusi: pubblicare tutto.