Bufale, ecco perché sono redditizie.

Pubblicato il Da Marco Canestrari

Foto: mobify.com

E pericolose

Pubblicato inizalmente su www.ilfattoquotidiano.it il 6 maggio 2016

Laura Boldrini: “Ora di Corano in tutte le scuole”.
Egiziano entra al bar, rapina l’incasso e stupra le due bariste.
Arriva la conferma: quel detergente intimo provoca il cancro!

Queste notizie hanno due cose in comune: sono false e diventano virali sfruttando le debolezze emotive dei lettori.
 Abbiamo da poco festeggiato i trent’anni di Internet in Italia, celebrando anche la libertà di informare e informarci che la Rete ha portato: tutto molto bello, ma è ora di denunciare anche i pericoli che questa libertà, o meglio l’incapacità di gestirla, comporta.
 La circolazione in rete di bufale inventate di sana pianta è cosa nota soprattutto agli addetti ai lavori, ma temo che tra gli utenti — che ne sono le prime vittime, a volte in senso letterale — la portata del fenomeno sia tutt’altro che chiara.
Come, chi e perché diffonde bufale?

Il come è presto detto: inventare una notizia è semplice e veloce, scovarne una vera e verificarla richiede professionalità, tempo e soldi. Per ogni notizia vera e verificata se ne producono decine false. Le bufale vengono solitamente pubblicate su un sito e rilanciate sui social network e spesso hanno l’apparenza di notizie diffuse da una vera testata giornalistica.

Titoli come quelli citati prima diventano subito virali perché suscitano scalpore, rabbia o paura: chi legge è indotto a diffonderli, convinto in buona fede di rendere un servizio di informazione ai propri contatti.
Chi produce queste false notizie? David Puente di debunking.it — un sito che si occupa di verificare e smentire le false notizie segnalate — spiega che in Italia sono poche persone a gestire molti dei siti di bufale più frequentati, che fanno il verso alle testate più note storpiandone il nome per confondere il lettore.
Veniamo al perché. Scrivere e diffondere bufale è redditizio: costi di produzione estremamente bassi ed elevata diffusione dei contenuti permettono discreti profitti grazie ai classici banner pubblicitari.

C’è però un’altra spiegazione. Alcuni siti sono notoriamente legati, più o meno direttamente, a forze politiche che traggono vantaggio nel porsi come alternativa al “sistema delle lobby”. Ma è spesso un’illusione.
Ad esempio: se convinco, tramite presunte “iniziative editoriali”, un certo numero di persone che la lobby del farmaco impone le coperture vaccinali o le cure chemioterapiche per vili interessi economici a discapito della comunità, creo una base di consenso che posso sfruttare assumendo una linea di scetticismo priva di base scientifica (come “vaccinare meno, vaccinare meglio”). Il più vecchio tra i metodi di propaganda: indicare un falso problema e porsi come unica soluzione, con l’aggravante di essere pericoloso per la salute pubblica fino a causare morti. E il più vile, perché colpisce i più deboli, chi non ha gli strumenti culturali per verificare la qualità di certe notizie, specialmente quelle a carattere scientifico.

Il giornalismo, a fronte di tutto ciò, non può e non deve rimanere passivo: è un momento difficile per l’industria dell’informazione anche perché le due risorse più preziose, i soldi necessari a fare buon giornalismo e l’attenzione dei lettori, sono drenate da quelle realtà.
Se prima il compito dei giornalisti era trovare e riportare le notizie, adesso non basta più: il dibattito pubblico è drogato da queste pratiche, quando si parla di salute come quando si parla di immigrazione, ed è compito anche del giornalismo denunciarle e contrastarle. Sia nell’interesse dei lettori che nell’interesse dei giornalisti, per la loro stessa sopravvivenza.


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