Europee: Salvini e Di Maio cacciano nella stessa foresta

Fino al 23 maggio, quando si rinnoverà il Parlamento Europeo, parleremo spesso di quel che accade a Bruxelles in vista dei nuovi assetti politici.

Qualche settimana fa vi avevo raccontato perché il Movimento potrebbe avere grosse difficoltà dopo il voto europeo, tra le strategie di Di Maio e i veti di Casaleggio.

In breve: per contare qualcosa il Movimento deve far parte di un gruppo politico. A causa della Brexit, lo UKIP con cui sono alleati non ci sarà più e Di Maio sta cercando una nuova casa per il partito. Senza un gruppo, non ci sono soldi per gli uffici e non c’è la possibilità di svolgere molte attività politiche, né ambire ad alcune importanti cariche.

In questi giorni si parla di un documento chiamato “Manifesto dei sette” che sarebbe in procinto di essere annunciato da Di Maio e altri capi-partito europei. Il nome, verosimilmente, è dovuto al fatto che ogni gruppo deve rappresentare almeno sette diversi paesi europei.

Si dice che Di Maio stia cercando di formare una nuova coalizione di partiti non allineati alle grosse formazioni, popolari, socialisti, verdi, il gruppo di Salvini e Le Pen. L’altro gruppo di destra, i Conservatori, probabilmente scomparirà, venendo a mancare l’apporto dei conservatori inglesi. Numerosi attori vecchi e nuovi avranno lo stesso problema del Movimento: trovare una collocazione politica per accedere a fondi, cariche, tempo di parola in assemblea.

Non sarà facile.

Sono in grado di aggiungere qualche tassello al rompicapo grazie ad alcune fonti che, comprensibilmente, hanno chiesto di non essere citate.

Il Movimento certamente non chiederà di aderire ai Popolari o ai Socialisti, che comunque lo respingerebbe. Importanti personalità dei Verdi stanno investendo le loro energie allo scopo di evitare un accordo con Di Maio. La componente tedesca, per dire, ha posto come condizione – irricevibile – la caduta del governo Conte.

Non solo: Di Maio deve anche fare i conti con la concorrenza “interna”. Salvini, ci raccontano, sta giocando una sua partita. Con la prospettiva di essere il primo partito del Paese a maggio, può ambire a negoziare un accordo col Partito Popolare Europeo. Per farlo, però, deve anche portare in dote un sufficiente numero di parlamentari. Da qui la necessità di allargare il proprio gruppo, andando a cacciare nella stessa foresta di Di Maio e Casaleggio, con carte migliori.

Un accordo coi Popolari lo rende più attraente agli orfani dei Conservatori e ai partiti alla prima esperienza ai quali garantirebbe incarichi di maggioranza.

Di Maio, invece, potrebbe offrire solo l’opposizione.

Salvini è grillino!

“Siamo il cambiamento!”

[I ministri] “sono dipendenti al vostro servizio!”

“Siamo il primo movimento politico del Paese!”

Vi ricordate Beppe Grillo urlare dal palco di Piazza San Giovanni queste parole? Bene, vi ricordate male, perché queste sono le parole di Matteo Salvini urlate dal palco di Piazza del Popolo a Roma, due giorni fa.

Mi sono guardato i tre quarti d’ora di comizio.

C’è un fatto di cui non si è apparentemente accorto nessuno. Del resto, bisogna conoscere la storia e aver vissuto i primi anni del Blog di Beppe Grillo, dei V-Day e delle liste civiche per capire cosa stia facendo il capo della Lega.

Il discorso è pieno zeppo di riferimenti e parole d’ordine care al Movimento 5 Stelle, quello delle “origini”, dei V-Day. Di slogan di Casaleggio come “non molleremo mai”. Di repertorio di Beppe Grillo: “ci vuole un’idea di futuro a cinquant’anni“.

Sono risuonate parole come “cambiamento”, “cittadini”, “onestà“. Perfino il passaggio sulle forze dell’ordine che “sono con noi” non è di Salvini: lo diceva Beppe Grillo ai comizi.

I casi sono due: o Matteo Salvini sta cercando di tranquillizzare l’elettorato e i parlamentari del compagno di strada, Luigi Di Maio, oppure glieli vuole soffiare.

L’impressione che ho avuto è che il ministro dell’Interno stia giocando una partita inedita. Stia cercando di scambiare il mazzo con l’alleato di governo, avendo fiutato qualcosa.

Sei mesi fa il Movimento e Di Maio erano considerati l’ala moderata del governo e Salvini quella estremista. La percezione è cambiata o sta cambiando velocemente. La Lega vuole apparire più dialogante, responsabile (altro termine ricorrente durante il comizio), coi “piedi ben piantati a terra”. Perfino l’Europa non è più il nemico, ma va “cambiata dall’interno“. Proprio come proponeva Di Maio in campagna elettorale.

In politica, come sempre, i vuoti si riempiono. Così, se Di Maio non è considerato affidabile dai rappresentanti delle categorie produttive, Salvini li accoglie al ministero. Se il Movimento propone una tassa sulle auto inquinanti, Salvini mette il veto.

Così facendo, costringe gli alleati su posizioni più estreme, per potersi accreditare come quello ragionevole.

Se Di Battista si schiera con le proteste in Francia, Salvini sottolinea quanto sia pacifica la sua piazza. Come fece Grillo a Bologna l’8 settembre 2007.

Conta, in questo scenario, tutta l’esperienza politica di Salvini e soprattutto di Giorgetti, molto più scaltri e rapidi ad annusare il vento che cambia. Diceva Enrico Cuccia che le azioni non si contano ma si pesano. Lo stesso vale per i voti: Salvini ha preso il 17% il 4 marzo scorso; Di Maio il 32%; ma il consenso del governo, adesso, lo tiene alto la Lega.

Per questo comanda Salvini.

Che si vuole riprendere uno a uno i voti – soprattutto quelli del Sud – del centrodestra migrati verso il “moderato” Di Maio alle scorse politiche.

 

Salvini vuol dare le carte

Ieri Salvini ha fatto una dichiarazione molto interessante, ambivalente.

Ha detto che il contratto di governo può essere “ritarato“, dando anche un’orizzonte temporale: “settembre 2020”.

Molti, leggo, la interpretano come una minaccia. Io non credo sia così. Penso che questa dichiarazione dica molto dei rapporti col Movimento e delle prospettive strategiche di Salvini.

Anzitutto, significa che c’è una carta in più da giocare prima che cada il governo. In caso di crisi, si può trovare un altro accordo. Probabile che dopo il voto europeo gli equilibri politici siano diversi, con un peso delle due forze più equilibrato rispetto al voto politico. Sul tavolo, insieme alla composizione del governo, Salvini mette anche il programma.

Secondo, è una rassicurazione più che una minaccia nei confronti del Movimento. Luigi Di Maio e colleghi temono una crisi di governo come la peste. Non terrebbero i gruppi parlamentari, pieno di deputati e senatori di prima nomina che non vogliono tornare al voto. In buona compagnia: nelle stesse condizioni ci sono quasi 600 parlamentari.

Salvini sa bene che Di Maio si venderà pure le mutande prima di rinunciare al governo.

Terzo: è una rassicurazione, quella di Salvini, anche verso il proprio elettorato, molto nervoso. Passata la finanziaria, vediamo di aggiustare quel che non va.

Infine, indicare il 2020, una data lontana, dimostra la volontà di tenere in piedi la legislatura. Nemmeno la Lega, che pure ha sondaggi favorevoli, ha voglia di spendere altri milioni di euro in una campagna elettorale, magari durante una recessione.

Beppe Grillo: la clava contro Roberta Lombardi

Lo scorso 1 dicembre c’è stata una mozione di sfiducia nei confronti di Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio.

La giunta si regge grazie all’appoggio esterno del Movimento 5 Stelle, che però non ha votato compatto e ha lasciato Zingaretti al suo posto.

Il giorno prima Luigi Di Maio, capo politico del Movimento, seguito da Beppe Grillo, ha invitato i consiglieri laziali a votare compatti la sfiducia per far cadere la giunta e portare la regione al voto.

Roberta Lombardi, capogruppo in consiglio regionale, aveva dato indicazioni diverse: uscire dall’aula per non far cadere Zingaretti, cui ha garantito una sorta di non sfiducia per governare. Non ha, peraltro, nascosto la sua seccatura per l’intervento esterno: “Grillo non si occupa di tematiche territoriali e mi chiedo chi lo abbia spinto a intervenire e cosa gli abbia detto. Per il futuro chiedo a Beppe e Luigi che qualsiasi cosa volessero sapere sul Lazio mi chiamassero“.

Chiaramente, i consiglieri regionali – inclusa Lombardi – non hanno alcuna intenzione di chiudere anzitempo la legislatura rinunciando al proprio ruolo, stipendio, lavoro. Da questa vicenda, però, possiamo ricavare altri due dati che ci permettono di capire meglio i rapporti di forza e i progetti a medio termine dei dirigenti romani e milanesi del partito.

Cerchiamo intanto di spiegare a Lombardi chi ha “spinto” Grillo a quelle dichiarazioni.

Come abbiamo spiegato in Supernova io e Nicola Biondo, Grillo non ha mai preso una decisione, né scritto un post, né avuto alcun ruolo autonomo. Ha sempre avuto e continua ad avere ghostwriter e suggeritori. All’inizio dell’anno ha lasciato Casaleggio Associati, che non gestisce più il suo Blog. Davide Casaleggio, però, attraverso l’associazione Rousseau e in accordo con Di Maio continua ad amministrare la comunicazione del Movimento. Quando Grillo parla del partito, dunque, lo fa su indicazione dei due diarchi: Di Maio e Casaleggio. I quali, evidentemente, sono interessati a far cadere la giunta Zingaretti. Perché?

Lo si capisce guardando ai sondaggi e agli altri segnali, piccoli e grandi, che arrivano dai territori.

Primo indizio: giorni fa, Giancarlo Cancelleri ha dichiarato di essere ben felice di fare alleanze post elettorali con la Lega in Sicilia.

Secondo indizio: alcune settimane prima, l’eurodeputato Marco Valli parlando con La Stampa aveva spiegato che ci sono tentativi e interlocuzioni per il nuovo gruppo europeo, ma è possibile anche un’alleanza con Salvini e Le Pen. Valli è subito dopo caduto in disgrazia ed è ora sospeso dal Movimento.

Terzo indizio: il Movimento ha rinunciato a tutti gli emendamenti, inclusi quelli dei fantomatici “dissidenti”, al decreto sicurezza di Salvini, che così è diventato legge.

Insomma, tutto sembra portare a concludere che l’intenzione dei dirigenti sia quello di proseguire sulla strada di una maggiore convergenza con la Lega, soprattutto in vista delle prossime Europee. A quel voto Salvini potrebbe arrivare in miglior salute e raggiungere se non sorpassare il Movimento. Subito dopo, in funzione del nuovo peso politico dei due alleati, si dovranno trovare nuovi equilibri.

Evidentemente, Di Maio vuole portare in dote qualche scalpo sul tavolo delle trattative, visto che non potrà più vantare l’egemonia elettorale.

La vicenda su Zingaretti, con Grillo usato come clava contro gli stessi consiglieri locali, rientra perfettamente in questa cornice.

 

M5s e Lega: nei comuni nasce la Terza Repubblica

Per capire il futuro della politica nazionale, spesso può essere utile leggere le cronache locali.

Mercoledì scorso il Giornale di Sicilia pubblica il resoconto di un’intervista televisiva di Giancarlo Cancelleri, tirapiedi siciliano di Luigi Di Maio e fratello dell’onorevole Azzurra Cancelleri, alla seconda legislatura.

L’articolo contiene una notizia e mezza. Anche al voto europeo, la prossima primavera, ci saranno candidature scelte direttamente dal Capo Politico, cioè Di Maio. L’obiettivo è raccogliere preferenze, per farlo servono volti noti. Proprio come ai collegi uninominali dello scorso voto politico. È una mezza notizia perché sembra naturale che vogliano provare di nuovo l’ebbrezza di poter distribuire potere e assicurarsi fedeltà.

La notizia vera è un’altra: Cancelleri apre ad alleanze post elettorali a livello locale e lo fa con riferimento alla Lega. Il Movimento “non fa alleanze preventive” ma con la Lega si può “trovare un punto di intesa successivo”.

Uno scenario simile, se dovesse trovare riscontri reali dopo le amministrative, significherebbe che si sta delineando la politica nazionale dei prossimi dieci anni. Uno scenario che trova riscontro a Roma (com’è ovvio) come a Bruxelles. Scrivevo qualche settimana fa come in europa il Movimento sia condannato a trovare nuove alleanze per contare qualcosa. Orfano di Nigel Farage (il Regno Unito, causa Brexit, non eleggerà europarlamentari), Di Maio e soci dovranno trovare una nuova casa, pena l’impossibilità di esercitare l’azione politica e, soprattutto, di accedere ai fondi riservati ai gruppi politici. Servono 25 parlamentari di sette paesi per formare un gruppo: l’aggancio con l’ALDE (i liberali) è fallito due anni fa, i verdi non ne vogliono sapere (e nemmeno Casaleggio).

Al Movimento, per adesso, resta il gruppo di Salvini e Marine Le Pen.

Cosa c’entra il MoVimento 5 Stelle con la Catalogna?

Qual è la posizione di Luigi Di Maio e del MoVimento 5 Stelle sull’indipendenza della Catalogna? La domanda sembra riguardare una questione lontana e di relativa importanza, ma non è così per almeno due motivi.

Quello più scontato è la questione della politica estera. Abbiamo già parlato del rapporto ambiguo col regime di Putin, che cambia radicalmente nel 2014 senza alcuna spiegazione, passando dalla denuncia degli atteggiamenti dello Zar agli incontri più o meno conosciuti coi suoi gerarchi.

Il fatto è che scegliere da che parte stare rispetto alle grandi questioni internazionali rischia di infastidire una parte dell’elettorato: l’immagine dell’intero partito cambierebbe radicalmente se Di Maio dichiarasse, ad esempio, come la pensa sulla questione isreaelo-palestinese. Perciò, a tavolino, fin dal 2007 si decise di non affrontare affatto questi problemi, non essendoci una via che permettesse di massimizzare il consenso.

L’altro motivo per cui sarebbe importante sapere cosa pensano tra Milano, Genova e Pomigliano delle spinte indipendentiste catalane è che si capirebbe anche come intendono condurre la campagna elettorale. Il modello è sempre Rajoy — come ha dichiarato il capo poche settimane fa — , che sta cercando di impedire con ogni mezzo, anche violento, l’indipendenza della regione spagnola, oppure Gianfranco Miglio?

Miglio è stato a lungo l’ideologo della Lega Nord: teorizzava, per l’Italia, la necessità se non di tornare agli stati preunitari almeno a una federazione di tre macroregioni. La visione era ampiamente condivisa da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, che infatti pubblicano un post in tal senso a marzo 2014.

In Supernova — Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle raccontiamo questo episodio, importante perché nemmeno il capo della Comunicazione alla Camera, uno degli autori del libro, venne a sapere chi fosse l’autore:

Il resto è slogan, vendita di sogni a buon mercato.

E se non è un sogno ricevere soldi senza lavorare…

Per scalare il mercato politico della paura e dell’ignoranza, il marketing del MoVimento ha fatto per anni da volano alle posizioni più antiscientifiche e antistoriche. Nel marzo 2014 sul Blog qualcuno scrive “che l’Italia non ha più motivo di esistere e va divisa in tre…”. In nome di quale analisi, di quale dibattito? Nessuno.

La verità è che verrà presa una posizione — si fa per dire — quando si capirà l’aria che tira in Italia. Il 22 ottobre ci sarà un referendum “per l’autonomia” in Lombardia e in Veneto: l’esito sarà determinante per l’agenda della campagna elettorale della primavera 2018. Vedremo se Di Maio sceglierà una posizione europeista, nazionalista, separatista o, più probabilmente, opportunista.