Mattarella e la tenuta delle democrazie

Ridisegnare gli Stati per sopravvivere al progresso


Risulta ogni giorno più evidente che, in Italia e nel mondo, le nostre strutture democratiche sono sottoposte a uno stress test di portata storica che non è detto verrà superato.

Gli Stati occidentali moderni sono stati progettati dopo la Seconda Guerra Mondiale: all’epoca i poteri erano retti da equilibri tutto sommato semplici da organizzare, basandosi sul principio della separazione dei poteri. Anche il contropotere proprio delle società democratiche, l’informazione, ha assolto alla funzione di accompagnare e filtrare le carriere dei “potenti”, fossero essi politici, amministratori, vertici aziendali.

Anche quando i filtri non funzionavano, c’erano comunque gli anticorpi: Nixon fu costretto alle dimissioni grazie a un’inchiesta giornalistica, quando la professione di giornalista godeva della necessaria considerazione, nel
pubblico, e della necessaria credibilità.

L’esercizio del potere subiva una serie di controlli e bilanciamenti tali da determinare un consenso pubblico rispetto al funzionamento del sistema. Un delicato equilibrio scolpito nelle nostre Costituzioni.

Quell’equilibrio non esiste più.

In vent’anni il DNA delle nostre società è mutato, nel bisogno di essere rappresentati e nel bisogno di comunicare. L’innovazione tecnologica ha messo nelle tasche di ciascuno di noi la possibilità concreta di comunicare senza filtri e senza contropoteri.

Oggi si manifestano le conseguenze di questo fatto. Ai vertici delle istituzioni arrivano personalità senza alcuna preparazione tecnica o politica, avendo facoltà di mentire e cambiare posizione a distanza di poche ore su qualsiasi argomento. Non tanto perché il giornalismo non fa più il suo mestiere ma perché, anche per colpe proprie nel capire come stava cambiando il mercato editoriale, è diventato un contropotere inefficace. I leader politici, per scalare le istituzioni, non hanno più bisogno dell’intermediazione del giornalismo: il rapporto con la base elettorale è diretto, immediato inteso come senza mediazione. Possono mentire senza perdere consenso, perché chi lo farà notare — il giornalista — non sarà più interlocutore di quella base elettorale, che prima — appunto — mediava il rapporto, e quindi non sarà ascoltato.

Il caso italiano è esemplare: i leader possono forzare gli equilibri costituzionali con successo, perché nessun contropotere ha più la forza di contrastarne le argomentazioni.

Ieri, il Capo dello Stato Mattarella ha esercitato una sua prerogativa costituzionale rifiutandosi di nominare il Ministro dell’economia proposto dal Presidente del Consiglio incaricato. Ci sono decine di commentatori, costituzionalisti, giornalisti, uomini delle istituzioni che confermano il diritto del Presidente di farlo, ma il messaggio che è passato è l’opposto: per l’opinione pubblica Mattarella ha violato la Costituzione.

Da quando le forze “antisistema” hanno infiltrato le istituzioni, abbiamo avuto una crisi ad ogni singolo passaggio previsto dalla Costituzione. E quasi ogni volta la crisi si è superata con una forzatura della Carta: la rielezione di Napolitano, l’elezione di Mattarella a maggioranza semplice (non una forzatura, ma resta comunque un presidente eletto grazie al consenso personale dell’allora segretario del partito di maggioranza relativa), l’attuale crisi di governo, il cui dibattito si basa sull’interpretazione di una prerogativa costituzionale del Presidente della Repubblica.

Da questa situazione se ne uscirà solo con nuovi assetti democratici che tengano conto della mutata distribuzione del potere. Bisogna ridisegnare le istituzioni e i processi democratici, reinventare gli strumenti di partecipazione, aggiornare gli strumenti in mano a ciascun singolo potere e contropotere affinché possano svolgere il loro compito. Questo è un processo inevitabile, e bisogna augurarsi che sarà un processo pacifico e ordinato.

Per tentare di avviarlo nell’alveo delle regole che ancora tengono, se io fossi Mattarella prenderei atto che la natura monocratica della sua funzione non è sufficiente a reggere il peso della sua decisione — dato il contesto — , e chiederei un parere di interpretazione autentica alla Corte Costituzionale, mettendo sul tavolo le dimissioni. In questo modo al peso della Presidenza si aggiungerebbe quello della Corte nel sostenere le fondamenta delle istituzioni.

Per aggiornare l’infrastruttura democratica in un passaggio storico così complesso servono istituzioni solide la cui autorevolezza sia condivisa. Il rischio, altrimenti, è che si disegnino i nuovi assetti sul principio della legge del più forte.

Vi prendono per il culo

Perché se lo possono permettere


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Io vivo a Londra, in Gran Bretagna.

Due anni fa qui il popolo sovrano si è finalmente ribellato all’élite di eurocrati e ha votato la brexit.

Il referendum è stato voluto dall’élite politica locale, per saldare conti interni al partito di governo, e il fronte del «leave» favorevole alla separazione dall’Unione Europea era guidato da Nigel Farage, consumato politico sovranista alla Salvini, col cuore a Londra, stipendio e portafoglio a Bruxelles, potenziale passaporto a Berlino, essendo sposato a una donna tedesca.

Sapete cos’è successo il giorno dopo il referendum? Io, che vengo pagato in euro, non ho debiti e ho un reddito alto, sono diventato più ricco del 15% mentre il fattorino dell’Asda che mi porta la spesa a casa si è impoverito del 15% rispetto ai suoi colleghi europei. Lo potete vedere in questo grafico, che rappresenta il cambio Sterlina/Euro.


La freccia indica la Brexit.

Vi prendono per il culo, sul vostro culo.


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Chi ha voluto, promosso, sponsorizzato e finanziato la Brexit non ha subìto alcuna conseguenza. Chi ha un reddito alto ed è in grado di gestirlo adeguatamente distribuisce i risparmi su più valute e investe su diversi mercati, settori, strumenti finanziari. La Brexit ha provocato loro forse una seccatura, che ha comportato il riassetto del portafoglio. Qualche mese e passa tutto.

Chi ci ha smenato subito è, come dicevo, il fattorino che mi porta la spesa a casa. Lui ha uno stipendio in sterline, verosimilmente non altissimo, e verosimilmente non gode di rendite finanziarie. A lui l’inflazione ha causato l’aumento quasi immediato dei prezzi al supermercato e l’andamento dei tassi quello del mutuo o dell’affitto. E si è impoverito, rispetto agli altri europei e agli americani, del 15%.

Chi soffia sulla rivolta del popolo contro le élite è una parte di quella élite, che spesso soffre di complessi di inferiorità e cerca riscatto giocando al piccolo leader o edulcorando il curriculum. E lo fa sapendo come evitare il proprio disastro finanziario. I Salvini, i Di Maio, i Di Battista, i Casaleggio e i loro strilloni non perdono il sonno se si alza lo spread: per questo ci fanno le campagne elettorali, i video dai tetti, gli editoriali sarcastici e i memini su Facebook senza preoccuparsene. A loro dell’aumento del mutuo o della spesa al supermercato di 100 o 200 euro al mese non frega un cazzo.

Loro Savona, quintessenza dell’élite, se lo possono permettere. Una crisi istituzionale senza precedenti se la possono permettere. Voi no.

Il culo che scommettono è il vostro, non il loro.


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Laura Castelli era una nostra fonte

Ieri abbiamo svelato una delle fonti di Supernova, il libro che abbiamo scritto per raccontare segreti, bugie e tradimenti del Movimento 5 Stelle e abbiamo consegnato a Repubblica documenti che provassero lo scambio di informazioni. A Repubblica abbiamo spiegato le motivazioni che ci hanno portato a fare questa scelta:

Ci siamo chiesti a lungo se continuare a coprire una delle tante fonti che ci hanno permesso di scrivere Supernova e che sapevamo stesse mentendo pur essendo un Parlamentare della Repubblica. Ora pare che occuperà addirittura ruoli di governo. Prima che accada, riteniamo giusto fornire ai lettori le informazioni in nostro possesso utili a giudicare i comportamenti di un possibile ministro o sottosegretario. Si è dimostrata capace di comportamenti pubblici opposti a quelli privati per fini che, evidentemente, attenevano alla sua personale carriera e crediamo che l’interesse pubblico prevalga sulla necessità deontologica di tutelare una fonte.

Come ci aspettavamo, abbiamo ricevuto critiche che possiamo sintetizzare in: avete sbagliato, le fonti non si rivelano.

Non abbiamo preso questa decisione né in fretta né a cuor leggero. È evidente che rompere il patto che lega lo scrittore/giornalista alla sua fonte è un atto che va ragionato — e per questo ci abbiamo riflettuto per mesi anche chiedendo consiglio ad alcuni amici giornalisti — e spiegato. Eccoci qui, dunque.

Un parlamentare di peso aveva deciso, consapevolmente, di aiutarci in una “operazione trasparenza” rispetto ai metodi utilizzati dai suoi colleghi di partito per arrivare al potere. Laura Castelli, rispondendo alle nostre domande e sapendo che le sue risposte sarebbero state riportate nel nostro libro, ci ha raccontato l’influenza di uomini di Casaleggio Associati sui parlamentari, incluso il vicepresidente della Camera; i metodi della propaganda; la road map per scalare il partito ed escludere dalla catena decisionale i suoi fondatori. Soprattutto, ci ha raccontato in diretta la rivolta della fine del 2016 per impedire quella scalata. Fu una delle anticipazioni di Supernova, che dal Movimento negarono con forza. Voleva denunciare i metodi imperanti per farli conoscere attraverso di noi, ma poi ha deciso di usare quegli stessi metodi per raggiungere il successo personale.

Supernova è ora in libreria e su Amazon

Molti mesi fa, improvvisamente, Castelli ha deciso unilateralmente di non essere più una nostra fonte. Anche allora, e fino a ieri, abbiamo onorato la nostra parte di accordo continuando a garantire che la sua identità rimanesse coperta.

Quali fossero i suoi interessi non ci riguarda. Noi abbiamo anzitutto siglato un accordo con i nostri lettori quando abbiamo chiesto loro di finanziare il nostro lavoro, promettendo di raccontare tutto quanto avessimo scoperto: per farlo, abbiamo stretto un patto, subordinato a quell’accordo, con un influente parlamentare della Repubblica: informazioni in cambio di anonimato. L’On. Castelli era consapevole che le sue rivelazioni sarebbero state utilizzate per il nostro lavoro.

Il nostro impegno con voi lettori non è cambiato: abbiamo continuato a raccontarvi quanto ritenevamo fosse di interesse pubblico. Ed è questo che ha prevalso nella nostra decisione.

Era noto che l’On. Laura Castelli fosse in procinto di entrare al governo come ministro delle Infrastrutture o della Pubblica Amministrazione. Nel primo caso avrebbe gestito qualche centiaio di miliardi di euro di soldi pubblici, nel secondo le vite lavorative di oltre tre milioni di dipendenti dello Stato. Abbiamo ritenuto che fosse prevalente l’interesse del pubblico, tutto il pubblico, non solo chi ha letto il nostro libro, avere le informazioni in nostro possesso per formarsi una più completa opinione su un possibile futuro ministro, in predicato per ruoli così importanti.

Se non l’avessimo fatto, peraltro, l’On. Castelli avrebbe svolto le sue mansioni sapendo che avevamo queste informazioni in nostro possesso e che, se avessimo voluto, avremmo potuto renderle pubbliche.

Ci ha colpito, tra tutti i commenti ricevuti, la frase di un importante giornalista: “Tutti hanno mail e sms pregressi di politici assortiti e importanti. Ma se li tengono.”

Questa affermazione rivela una realtà: nella classe dirigente di questo Paese ci sono due categorie, politici e giornalisti, vincolate da una rete di influenze che si tengono tra loro. Rete, intendiamoci, legittima finché i giornalisti la utilizzano per il fine ultimo di consegnare ai lettori quante più informazioni possibili sui servitori pubblici.

Noi non pensiamo che tutte le fonti vadano rivelate. Non sempre il politico, nel fornire le notizie al giornalista, mente al suo elettorato. Quando lo fa, però, diventa una notizia. E se quel politico deve gestire miliardi di euro di soldi pubblici o milioni di contratti del pubblico impiego allora è una notizia che riteniamo degna di essere divulgata. A quel punto, e questo abbiamo ritenuto fosse il caso, sulla garanzia a un potente prevale il patto coi lettori ai quali abbiamo promesso di far giungere le notizie.

Marco Canestrari e Nicola Biondo

Il Garante non garantisce Rousseau

Il Garante della Privacy Antonello Soro non si fida di Davide Casaleggio. Impone di fornire all’Autorità il codice della piattaforma Rousseau, la dichiarazione di un professionista o una società terza sulla sicurezza delle nuove modifiche e, soprattutto, prende in carico personalmente la pratica.

È questa la sintesi del nuovo provvedimento, datato 16 maggio 2018, che segue quello dello scorso dicembre e riguarda lo stato di avanzamento delle prescrizioni imposte al capo-ombra del MoVimento 5 Stelle.

La vicenda inizia ad agosto dello scorso anno quando la piattaforma Rousseau subisce due violazioni di sicurezza, qui raccontate dall’ottimo David Puente, talmente gravi da mettere in allarme il Garante della Privacy. Viene condotta un’indagine che si conclude con alcune prescrizioni: vanno garantite la sicurezza del voto e la protezione dei dati personali. L’indagine, infatti, aveva fatto emergere una grave insufficienza tecnica e, soprattutto, aveva confermato che i voti espressi sulla piattaforma sono direttamente riconducibili agli iscritti.

Per le violazioni riscontrate, l’Associazione Rousseau è già stata multata per 32.000 euro dal Garante.

Ebbene, il provvedimento di due giorni fa segna anzitutto un cambio di passo. A differenza del precedente, il relatore è personalmente il Presidente dell’Authority Soro. In gergo si chiama “escalation”: ora se ne occupa il massimo livello, segno della gravità del caso e dell’insufficienza delle risposte fornite dall’Associazione Rousseau e da Davide Casaleggio.

Analizziamo nel dettaglio il nuovo provvedimento.

Nella prima parte, si dà notizia di due comunicazioni, una del 20 febbraio da parte di Casaleggio l’altra di una settimana dopo, il 27, da parte di Beppe Grillo.

Nella prima, Casaleggio “ha dato conto delle misure di sicurezza già adottate chiedendo, al contempo, la proroga del termine fissato dal Garante” per implementare un sistema che consenta di tracciare gli accessi e le operazioni effettuate sul database. Insomma, si chiede la certificazione del voto da parte di un ente terzo. Questa prescrizione è richiesta perché il sospetto è che il sistema di e-voting sia consultabile e/o manipolabile da soggetti non autorizzati e/o per motivi diversi dalle finalità previste. Come ho raccontato più volte, Casaleggio ha potenzialmente accesso a tutti i dati degli iscritti, ed è questo che gli conferisce un potere di influenza sul Movimento che il Garante, evidentemente, ritiene di dover limitare. Eppure implementare un sistema di “log” non è tecnicamente così difficile, men che meno richiedere a un ente terzo di certificare le procedure di voto: l’hanno già fatto in passato. Chissà perché si richiede una proroga di addirittura sei mesi.

Grillo, invece, si defila: rimanda tutte le richieste all’Associazione Rousseau e si assume la responsabilità solo per il nuovo Blog, attraverso il quale non vengono raccolti dati personali. In breve: Casaleggio è solo, se la deve sbrigare lui, Grillo non tira fuori un soldo.

Si passa poi ai “profili di criticità” emersi nella comunicazione di Casaleggio del 20 febbraio “rispetto ai quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni e/o documentazione al fine di poter valutare l’effettivo adeguamento alle prescrizioni impartite”. Insomma: Soro non si fida e vuole vedere le carte. In un modo, come vedremo, del tutto inusuale: un ulteriore indizio della serietà della situazione.

Ecco le criticità.

Primo: Casaleggio ha informato delle nuove misure di sicurezza in una comunicazione considerata “temporaneamente soddisfacente”; il Garante però vuole che glielo dica un professionista terzo indipendente, non l’Associazione, e infatti la risposta “deve essere integrata con l’indicazione dell’operatore (società o professionista) che ha condotto l’assessment e dagli esiti di tale attività in forma di report tecnico”.

Secondo: era stato richiesto che gli utenti utilizzassero necessariamente password sicure, più lunghe di otto caratteri e sottoposte a una verifica di complessità. Il Garante ritiene la prescrizione applicata solo parzialmente: al momento vale solo per i nuovi iscritti mentre dovrebbe essere imposta anche a quelli vecchi. Addirittura si spinge a dare un suggerimento imbarazzante per l’Associazione Rousseau, che ci sarebbe dovuta arrivare da sola: “Occorre piuttosto intraprendere una campagna di invito alla modifica della password nei confronti degli interessati già iscritti, prevedendo l’obbligo di attuare tale modifica alla prima sessione di collegamento utile attivata con le credenziali (tuttora) deboli”.

Terzo: si ritiene soddisfatta la prescrizione di applicare un certificato di sicurezza al dominio, un’operazione banalissima; era già incommensurabilmente grave che non fosse stato fatto prima.

Quarto: “al fine di consentire a questa Autorità di verificare la veridicità di quanto dichiarato, si rende necessario acquisire la documentazione relativa al codice di programmazione modificato […] (cd. codice sorgente)” utilizzato per implementeare un sistema più robusto di sicurezza delle password.

Traduco: dite di utilizzare una tecnologia più sicura per salvare le password. Bene, mi fate vedere se l’avete fatto davvero e come?

La frase così formulata da Soro è gravissima. Dice chiarissimamente di non fidarsi di Davide Casaleggio e sembra chiedere addirittura di visionare il codice sorgente della piattaforma per verificare quanto da lui dichiarato. Per intenderci, è l’equivalente di chiedere al proprio partner di vedere le chat di WhatsApp.
La prescrizione è talmente grave che ho chiesto a un mio collega esperto di sicurezza quanto sia frequente: “non c’è una ragione plausibile per cui un ente garante debba chiedere il codice sorgente”. Se l’ha fatto, dunque, la situazione deve essere davvero compromessa.

Quinto: il Garante prende atto che il Blog di Beppe Grillo è stato spostato su un’altra piattaforma, non gestita dall’Associazione Rousseau né da Casaleggio Associati e sulla quale non viene richiesto alcun dato personale. La prescrizione relativa a beppegrillo.it decade.

Casaleggio ha quindi tempo fino al 30 giugno per fornire la documentazione richiesta “che consenta di valutare l’effettivo adempimento delle prescrizioni”; viene accolta la richiesta di prorogare al 30 settembre il termine per l’implementazione di un sistema di certificazione del voto ma viene ricordato che il 25 maggio entra appieno in vigore la GDPR, le nuove norme sul trattamento dei dati che prevedono altissime sanzioni in caso di violazione. Sottinteso: su questo non verrà concessa alcuna deroga, anzi: “i soggetti destinatari del presente provvedimento dovranno pienamente adeguarsi”.

Firmato, come dicevamo, il relatore e Presidente Antonello Soro.

In conclusione, Davide Casaleggio e l’Associazione Rousseau sono sotto stretta sorveglianza del Garante della Privacy, che non si fida più dell’Erede per via dei pregressi e già sanzionati illeciti e per la mancata ottemperanza di molte delle prescrizioni imposte a dicembre.

Che la legislatura abbia inizio con un bel voto su Rousseau!

Il caso di Lucia Annunziata

Forse sarebbe il caso di dire le cose con parole chiare: c’è un tale non eletto da nessuno che si comporta da bullo nei confronti dei giornalisti e delle giornaliste italiane. Ne parla Luciano Capone sul Foglio raccontando il metodo-Casalino: il capo della comunicazione del MoVimento 5 Stelle impone a tutte le trasmissioni televisive che i parlamentari grillini godano di un trattamento speciale ed evitino il contraddittorio. O così o niente intervista: un ricatto che impedisce ai conduttori di fare il proprio lavoro e al pubblico di avere un’informazione completa.

Succede a tutti, anche ai giornalisti più autorevoli, anche a quelli del Servizio Pubblico.

Lo possiamo testimoniare direttamente.

A settembre del 2016 il Corriere della Sera e La Stampa pubblicano la prima anticipazione di Supernova (ora in libreria e su Amazon); tra le primissime redazioni televisive che ci contattano per un’intervista c’è quella di In Mezz’ora, la trasmissione di Lucia Annunziata su Rai3. È chiaro che il racconto dei due più stretti collaboratori di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo sia una notizia. Veniamo invitati per la domenica successiva. Poi rimandati di un paio di settimane. Infine la redazione ci scrive entusiasta: “a meno di notizie clamorose, domenica due ottobre siete in onda”.

Succede però qualcosa. La redazione prima temporeggia, poi ci fa sapere che il nostro invito è stato messo “in stand by”. Qualcuno aveva chiaramente fatto intendere che la nostra presenza avrebbe comportato delle conseguenze.

Contattiamo la redazione di In Mezz’ora di nuovo il 17 dicembre: “Ciao, quando finirà l’embargo su Supernova decretato da Casalino?”. Risposta: “Lasciamo perdere”.

Il nostro embargo è durato quasi due anni ed è stato rotto solo da due emittenti: TgCom24 e La7, la scorsa settimana, grazie all’invito di Gaia Tortora, che ringraziamo. Continua, invece, l’embargo nei confronti di Jacopo Iacoboni, autore di numerosi articoli e un altro libro, L’Esperimento, sui pentastellati.

Attenzione: sarebbe facile strillare contro “il giornalismo asservito ai potenti”, come fanno quelli.

Ma non è questa la nostra opinione. Lucia Annunziata è vittima, non complice. Lo diciamo chiaramente e senza alcun doppio pensiero.

Le trasmissioni politiche hanno senso di esistere, soprattutto sul Servizio Pubblico, se danno voce a tutti. Era sbagliato tenere fuori il MoVimento prima, sarebbe sbagliato tenerli fuori adesso. Tra i due mali, quello peggiore è privare il pubblico della voce di chi rappresenta il 32% dell’elettorato. Ci è facile capire perché veniamo esclusi noi, anche se è inaccettabile.

Ha ragione Nicola Porro: “Serve una risposta di mercato, e cioè una presa di posizione da parte dei giornalisti e degli editori”. Questo ricatto funziona perché in TV c’è, per fortuna, concorrenza e quindi può essere disinnescato solo con la volontà di tutte le redazioni, che devono all’unisono rifiutarlo. A tutela del mercato stesso: non passerà molto tempo prima che, per autodifesa, anche gli altri partiti adottino la stessa strategia, e a quel punto non ci sarà più niente da fare.

Del perché è sbagliato dileggiare il M5s

Senso di appartenenza e voglia di rivalsa crescono con gli insulti

Da quando il MoVimento ha vinto le elezioni ed è entrato nell’area di governo, si è (di nuovo) scatenato il dileggio nei confronti dei loro leader e dei loro elettori.


Personalmente l’ho notato nei commenti di amici e parenti, prima ancora che su Democratica — l’organo di informazione del PD — , che ieri ha prodotto la copertina che vedete.

Dai classici (“populisi”, “antipolitici”) ai più recenti (“buffoni”, “sono il nulla”) per arrivare ai “pop corn” di Renzi e alla copertina di Democratica, sembra che la reazione sia, ancora una volta, superficiale.

È un errore, lo è sempre stato. Dal celebre video di Fassino (“Grillo si faccia un partito, vediamo quanti voti prende”) alle prese in giro dei Renziani (“Ciaone”), il risultato è sempre stato un aumento di consensi.

Sono due i meccanismi che si innescano e che alimentano reazioni opposte a quelle sperate, una nei militanti l’altra negli elettori.

Nei militanti, il più classico: il senso di appartenenza. L’effetto assedio ha permesso in questi anni di cementare i rapporti, anche personali, interni al MoVimento, come difesa contro l’avversario. È stato l’alibi, tante volte, per prendere decisioni autoritarie, espellere supposti “infiltrati” dei partiti e, in definitiva, per rendere impossibile il confronto interno al partito che avrebbe reso molto più deboli alcuni argomenti di successo in campagna elettorale.

Nell’elettorato, il più deleterio: non puoi deridere l’avversario sottintendendo che sia un incapace perché, allora, bisognerebbe spiegare come han fatto gli incapaci a vincere contro di te le elezioni, e se, per caso, forse, tu non sia meno capace di loro. Il risultato di questa distonìa è a tutto vantaggio del MoVimento, soprattutto ora che ha già vinto.

Se si dà per scontato che “tanto non combineranno nulla” si crea l’alibi per evitare di pensare un’alternativa credibile e senza alternativa continueranno a vincere loro.

Il rompicapo

«Che mi frega dei due mandati? Io sono il Capo Politico, posso sempre ricandidarmi a presidente del Consiglio».

Questa frase, pronunciata da Luigi Di Maio tra l’1 e il 4 maggio scorsi in presenza di alcuni compagni di partito, ha segnato la fine delle sue pretese alla premiership.

Arrivati a questo punto, se davvero si trovasse un accordo tra Lega e Movimento il rompicapo dell’assetto della legislatura sarebbe risolto e Di Maio sarebbe, tutto sommato, l’unico sconfitto.

Facciamo un passo indietro e andiamo con ordine.

La posizione del capo politico del Movimento comincia a vacillare il 30 aprile, con l’intervista di Renzi a Rai1. Di Maio risponde immediatamente e rabbiosamente, chiudendo ogni opzione di alleanza col PD con toni da campagna elettorale, convinto che a quel punto si sarebbe andati subito al voto. Pochi giorni prima, in assemblea coi suoi parlamentari, aveva allentato la tensione garantendo che, in ogni caso, si sarebbe fatto in modo di ricandidare tutti. È apparso subito chiaro, però, che non si sarebbe andati a votare a giugno, come chiesto da Di Maio. Una deroga alla regola dei due mandati sarebbe stata possibile, ma non con un voto a dicembre o a primavera 2019.

Così qualcosa si rompe: anche i fedelissimi di Di Maio si innervosiscono. Perché? Per quell’improvvida frase: «Che mi frega dei due mandati? Io sono il Capo Politico, posso sempre ricandidarmi a presidente del Consiglio». Eh già. «E di noi che ne sarà?» avranno pensato i parlamentari al secondo mandato. Toninelli il 4 maggio dichiara che «sulla regola dei due mandati decide Grillo». Come a dire, ci salviamo tutti o nessuno.

Torniamo al quadro generale. Mentre Di Maio pensava di giocare una partita a scacchi, gli altri cercavano di comporre un rompicapo, seguendo degli obiettivi.

Primo: Di Maio non deve andare a Palazzo Chigi. Obiettivo raggiunto. Secondo: niente voto anticipato; a parte la Lega, tutti hanno qualcosa da perdere, seggi o ricandidature. Nemmeno il Quirinale impazzisce all’idea di sciogliere subito le Camere; inolte, il 65% dei parlamentari è alla prima nomina: difficile resistere, per i leader politici, a queste pressioni dall’alto e dal basso. Una soluzione per non votare prima del 2019 la si troverà.

Dunque, quale?

Il governo tecnico, per numeri e volontà politica, non lo vuole nessuno. Troppo facile per le eventuali opposizioni fare il bello e il cattivo tempo, soprattutto durante la prossima campagna elettorale.

Tolto di mezzo Di Maio, se Berlusconi fingesse il «passo di lato» o il Movimento accettasse qualche ministro forzista, la Lega e Salvini potrebbero mantenere unito il centrodestra (salvando le amministrazioni locali) e consolidare la propria leadership nella coalizione. Forza Italia potrebbe chiedere e ottenere qualche sottosegretariato chiave e qualche garanzia, evitando il voto. Il Movimento ha già rinunciato alla premiership, ma andare al governo e soprattutto evitare di decapitare l’intero gruppo dirigente a causa del vincolo dei due mandati sarebbe ottenere il massimo oggettivamente possibile. Questo governo, peraltro, godrebbe di un’opposizione molto debole: il PD governa da 7 anni, non ricorda come si fa opposizione e tuttavia se ne gioverebbe molto. L’ala renziana avrebbe ottenuto quanto voluto fin dal 5 marzo, il partito nel suo insieme avrebbe condizioni e tempo favorevoli al proprio riassetto, ora più necessario che mai.

Il tempo sta per scadere per Luigi Di Maio

Nell’aprile di due anni fa rilasciai un’intervista a La Stampa in cui esprimevo, dopo la morte di Gianroberto Casaleggio, la mia opinione su quanto stesse accadendo nel Movimento 5 Stelle.

Due cose in particolare: primo, era in atto una guerra per il potere all’interno del partito, una scalata del clan di Di Maio sostenuta, dall’esterno, da Matteo Renzi che aveva appena concluso una simile operazione nel Partito Democratico. Secondo, dunque, che le carriere dei due erano gemelle.

Renzi, infatti, appena diventato Presidente del Consiglio, si scelse il suo avversario — Di Maio, all’epoca vice presidente della Camera — rendendolo credibile anche agli occhi dei compagni del M5s. I dettagli sono raccontati in Supernova, il libro che ho scritto insieme a Nicola Biondo, in libreria dal prossimo 10 maggio.

I fatti degli ultimi due anni si sono già incaricati di confermare quelle preoccupazioni: Di Maio ha scalato il partito, che ora controlla militarmente, proprio come Renzi controlla (ancora) militarmente il Partito Democratico.

Nel PD, il tentativo di deviare dalla linea dettata dall’ex segretario è stato soffocato nella culla. Nel M5s la linea, dopo aver cercato in ogni modo di andare al governo, la detta solo il capo politico ed è chiedere il ritorno alle urne subito. Perché?

Di Maio, Casaleggio e il M5s hanno, in questi anni, investito tutte le risorse su un unico obiettivo: Luigi Presidente del Consiglio. Mai è stata proposta un’alternativa da nessuno, nel partito. Per farlo, hanno fatto carta straccia di ogni regola: prima capo-ombra del Direttorio, poi capo politico, poi candidato presidente, poi le candidature scelte in prima persona con l’aiuto del suo comitato elettorale. È stata anche sedata la rivolta interna e mandato Roberto Fico in esilio alla Presidenza della Camera (un bell’esilio, per carità, il “metodo-Fini”).

Poi, arrivati al dunque, Di Maio ha fatto l’errore dello scommettitore scemo: puntare su ogni risultato possibile, l’unica mossa che, è certo, non ti fa vincere. Ha proposto di formare un governo alla Lega, sperando che Salvini mollasse Berlusconi. Niente. Poi, ha bussato alla porta del PD, sperando che Renzi se ne stesse buono buono in disparte. Nulla.

Ora Luigi è, come si suol dire, nella melma: sfumato Palazzo Chigi, coi sondaggi che cominciano a calare, è chiaro che voglia andare subito al voto: la certezza di ricandidatura per tutti, con una buona probabilità di essere rieletti, può passare ancora per pochi giorni nel gruppo parlamentare, così come far digerire agli attivisti la deroga alla norma sui due mandati (che impedirebbe al Clan di essere di nuovo nelle liste). Ma se sfuma anche il voto, non avrebbe centrato nessuno degli obiettivi. Nemmeno uno. La sua credibilità nel gruppo parlamentare e nel MoVimento sarebbe annullata e da quel momento tutto potrebbe accadere. Senza più una figura di riferimento, senza nessun nuovo leader possibile, è facile ipotizzare che molti — soprattutto tra i neo eletti — non rinunceranno facilmente a cinque anni di stipendio e benefit da parlamentare.