Casaleggio sul Corriere. Parte 3 di 7: le organizzazioni

Torniamo a commentare la lettera di Davide Casaleggio al Corriere della Sera. Lo faccio perché il Corriere ha deciso di pubblicarla senza commenti, senza controdeduzioni, senza repliche: se nessuno si occupa di confutare punto per punto le tesi di Casaleggio, il rischio è che vengano prese per buone.

Nel mio piccolo, ho già scritto del primo e del secondo paradosso che secondo Casaleggio staremmo vivendo. Oggi ci occupiamo del terzo, chiamato del “delegante a sua insaputa”.

Il tema è l’organizzazione del consenso e la struttura dei partiti. Secondo Casaleggio c’è una contraddizione nel contestare che il M5s usi Rousseau per votare su tutto e difendere la struttura organizzativa dei partiti. La migliore organizzazione, infatti, sarebbe quella che consegna il potere decisionale al maggior numero di persone possibile.

Anche in questo caso, il ragionamento di Casaleggio parte da presupposti sbagliati, almeno due: che partecipazione coincida con voto e che le decisioni prese da un maggior numero di persone siano automaticamente decisioni migliori.

Tralasciamo il fatto che l’Erede lamenta il fatto che i partiti hanno di solito solo l’1% d’iscritti rispetto ai propri elettori, problema che sarebbe risolto con la tecnologia che aumenterebbe la partecipazione. Questo non è vero mai, almeno finora. Nemmeno per il suo Movimento: gli iscritti sono circa centomila, gli elettori undici milioni. L’1%.

Partecipazione non è (solo) voto

Detto questo, Casaleggio sbaglia nel ridurre la partecipazione al solo voto. Partecipare alla vita politica della propria comunità vuol dire molto di più. Significa discutere, conoscere, studiare, incontrare le persone, vivere la comunità. Il voto è, o dovrebbe essere, solo l’atto finale di un percorso deliberativo. Soprattutto, quando si chiama qualcuno al voto ci si dovrebbe assicurare che chi viene interpellato sia stato adeguatamente formato e informato sul tema in discussione.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo inventato la rappresentanza: non per limiti geografici, come sostiene Casaleggio, ma perché affidiamo le scelte a qualcuno incaricato di approfondire i problemi e trovare soluzioni. Soprattutto, ad assumersi la responsabilità delle decisioni.

Il modello Rousseau, la democrazia diretta, non contempla il concetto di responsabilità. Tutti votano su tutto e nessuno si assume la responsabilità di nulla. Infatti, anche i voti del Movimento su Rousseau sono sempre ratifiche delle decisioni prese dai capi, che quindi non sbagliano mai. E se non sbagliano mai allora perché cambiarli? È un circolo vizioso che tende ad accrescere il potere di chi conquista il vertice dell’organizzazione.

La qualità delle decisioni

Inoltre, le decisioni prese su temi specifici non sono necessariamente migliori se l’intera base viene coinvolta. Maggiore è il numero di persone, minore tende a essere la competenza media sul tema su cui si è chiamati a decidere.

Infatti, anche quando lo Stato acconsente a chiamare l’intero corpo elettorale a prendere una decisione specifica, lo fa con limiti molto stringenti e tramite processi che assicurino la massima e migliore informazione possibile sull’argomento.

Il modo in cui Casaleggio e Rousseau hanno dimostrato di voler utilizzare i loro iscritti prevede, anzi, che le votazioni arrivino a sorpresa, senza il tempo necessario ad approfondire l’argomento in discussione, con quesiti scritti nella maggior parte dei casi per orientare verso la scelta preferita dai vertici. Infatti, puntualmente, quella scelta è sempre risultata vincente.