Algoritmo per i dissidenti: magari fosse una battuta

Luigi Di Maio ha liquidato come una battuta da comico le parole con cui Grillo ha ironizzato, di nuovo, sulle espulsioni nel MoVimento 5 Stelle: “Faremo un algoritmo, se un parlamentare che hai votato non segue il programma è automaticamente espulso”.

Sarà anche una battuta, ma pochi si sono resi conto che gli strumenti che usa il Movimento permettono un controllo molto preciso sui comportamenti e le scelte di ciascun iscritto.

Rousseau, la piattaforma sviluppata da Casaleggio Associati e “messa a disposizione gratuitamente” è proprietaria: solo il produttore conosce il codice, quindi non è possibile escludere che gli amministratori della piattaforma, che siano i tecnici o i responsabili politici dell’Associazione Rousseau, possano verificare le attività di ciascun iscritto, parlamentari inclusi.

Se queste informazioni fossero a disposizione di tutta la comunità, non ci sarebbe nessun problema. Ma visto che sono poche le persone ad avere accesso a tutti i dati, e che l’informazione è potere, c’è un evidente squilibrio. Questo è uno snodo fondamentale per fare chiarezza sui criteri — del tutto arbitrari — per i quali molte liste a cinque stelle sono state respinte: senza certificazione non possono usare il logo e quindi candidarsi.

Sarebbe interessante sapere, ad esempio, quanti candidati sindaco respinti dallo “Staff” avevano votato contro la formazione del direttorio nella consultazione sul Blog del 2014, e quanti di quelli certificati avevano votato a favore.

Solo lo Staff potrebbe fare chiarezza: e questo è esattamente il problema.

Dal blog ai funzionari di partito

Sembra che Casaleggio Associati abbia iniziato a liberarsi di alcuni costi legati alla gestione del Movimento 5 Stelle, senza però rinunciare ai ricavi.

Pietro Dettori ha aggiornato il suo profilo LinkedIn, annunciando di aver lasciato Casaleggio Associati per diventare “Responsabile editoriale” dell’Associazione Rousseau, cioè del Blog delle Stelle, fu Blog di Beppe Grillo.

L’Associazione e il Blog delle Stelle dovevano servire a chiarire e semplificare l’organizzazione del Movimento 5 Stelle e i suoi rapporti con l’Azienda: se possibile, la situazione ad oggi è invece ancora più complessa.

I soci dell’Associazione sono Davide Casaleggio, Massimo Bugani e David Borrelli. Lo Statuto non è ancora pubblico, quindi non sappiamo quali siano obiettivi, sede e organi amministrativi.

Da alcune settimane il Blog di Beppe Grillo si sta trasformando nel Blog delle Stelle e sta raccogliendo i finanziamenti per sé e per l’Associazione. Al momento sono dichiarati 231.248€ da 7.415 donatori.

In realtà, la homepage di beppegrillo.it è sempre la stessa, pubblicità incluse, mentre le pagine dei singoli post hanno il brand “Il Blog delle Stelle”. Gli annunci pubblicitari sui post sono solo sulla versione mobile e non è dichiarato a chi vanno i ricavi. In fondo ai post, però, sono ancora indicati i credits a Casaleggio Associati e il link per chi vuole inserire pubblicità.

Il Blog delle Stelle rimane collegato ai profili social di Beppe Grillo, che continuano a sponsorizzare i prodotti commerciali dell’azienda, tzetze.it e lafucina.it, così come sul Blog compaiono i video de la-cosa.it: sugli ultimi due siti è presente il numero di Partita Iva di Casaleggio Associati, mentre su tzetze.it è indicata la stessa Azienda come responsabile del trattamento dei dati personali.

In conclusione: Casaleggio Associati pare aver solo spostato i costi di un suo dipendente all’Associazione finanziata dai sostenitori del Movimento, continuando a beneficiare dei ricavi dei siti pubblicizzati dai profili social di Beppe Grillo e dall’ibrido Blog di Beppe Grillo / Blog delle Stelle.

Come Facebook ha cambiato il M5S

Foto da galloluigi.wordpress.com

Dai MeetUp alle fan page, dall’organizzazione alla propaganda

Uno studio condotto dall’Università La Sapienza, coordinato da Antonio Putini e ripreso nei giorni scorsi da La Stampa, rivela come l’utilizzo da parte degli attivisti del Movimento 5 Stelle della piattaforma MeetUp.com sia scemato, fino a diventare marginale, nel corso degli ultimi anni.

Come già notava Federico Mello due anni fa nel suo Un altro blog è possibile (Imprimatur), l’abbandono dello strumento di organizzazione storico del Movimento è dovuto anche a ragioni tecnologiche: ad un certo punto, in Italia è arrivato Facebook. Il social network di Zuckerberg riesce meglio di qualsiasi altra piattaforma ad appropriarsi di una risorsa preziosissima, poiché limitata, degli utenti: il tempo. Per chi svolge un’attività online, che sia produrre e distribuire notizie oppure organizzare un movimento politico, il tempo che gli utenti passano sulla propria piattaforma è un parametro importante per il successo del proprio prodotto. Facebook riesce benissimo a trattenerci sul suo sito e sulla sua app, aggiungendo funzioni, semplificando i processi, stimolando l’inserimento di foto, video, commenti e, di recente, anche “reazioni” emotive.

Diversamente, gli strumenti di MeetUp.com tendono a promuovere la discussione, la condivisione di documenti e l’organizzazione di incontri; soprattutto, spingono alla ricerca di partecipanti motivati anche attraverso il filtro, decisivo, di una piccola somma da versare per aprire un gruppo. Il prezzo, però è la difficoltà di trattenere un grande numero di persone sul portale.
La migrazione da uno strumento all’altro è stata inevitabile, come lo è per molte altre attività, dall’editoria al marketing, e comporta delle conseguenze.

Su Facebook si acquisisce tanta più influenza quanto più si è in grado di provocare reazioni, condivisioni, commenti: ciò promuove un’organizzazione verticale basata sulla popolarità, molto diversa da quella più complessa, ma più diffusa, che aveva inizialmente caratterizzato il Movimento dei MeetUp, dove il valore aggiunto era la capacità di organizzare e motivare un gruppo verso un determinato obiettivo.

Non è strano, per un movimento politico nato e cresciuto in Rete, che lo strumento utilizzato non sia neutro rispetto alla sua organizzazione.

Nel tempo, la comunicazione è divenuta più determinate dei contenuti: lo stesso studio citato prima sottolinea la scarsa partecipazione degli iscritti ai sondaggi e alla discussione delle leggi proposte dai parlamentari.

Le persone più popolari sul social network sono diventate le più influenti politicamente e, infine, hanno accompagnato questo processo con un atto ufficiale, pubblicato sul blog di Grillo a luglio 2015, in cui nei fatti dichiarano superata l’esperienza dei MeetUp, relegandoli a un ruolo operativo e separandone l’attività da quella del Movimento stesso.
È quello il momento, stando alle conclusioni dello studio, in cui crolla il numero di gruppi e cessa la maggior parte dell’attività dei MeetUp.


Inizialmente pubbicato su www.ilfattoquotidiano.it il 20 maggio 2016.

Il MoVimento fallito, dalle unioni civili a Pizzarotti

I parlamentari M5S manifestano in aula contro l’omofobia

Ciò che sta succedendo nel MoVimento esprime lo stesso problema: il suo rapporto con le regole

Il MoVimento avrebbe dovuto essere le sue regole: nessuna ideologia, niente soluzioni preconfezionate, solo una cornice di poche, semplici regole all’interno delle quali organizzare il consenso, scrivere il programma, prendere decisioni.

Proprio sulle decisioni da prendere, per motivi che prima o poi andranno raccontati, il progetto è fallito. Due esempi per tutti: nessuno sa chi e come ha deciso di rinunciare a votare le unioni civili; nessuno sa chi e come ha deciso di sospendere Federico Pizzarotti.

Eppure, proprio a inizio legislatura c’era stato un episodio dopo il quale Grillo e Gianroberto Casaleggio avevano provato a trarre una lezione per il futuro: l’elezione del presidente del Senato Grasso.

Il Movimento era stato messo di fronte a una scelta impossibile: scegliere tra Grasso, del Partito Democratico, e Schifani. Ci fu una spaccatura, ci furono litigi e alla fine i senatori siciliani M5S decisero di votare Grasso contro l’indicazione del gruppo, che aveva indicato Orellana.

Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, foto da Huffington Post

Fu pubblicato un post sul blog di Grillo in cui, in sintesi, i garanti spiegavano come la soluzione dell’impasse fosse scritta nei regolamenti: sarebbe bastato votare quale fosse la linea e rispettare l’esito del voto, anche fosse stato Grasso. Applicare le regole, appunto.

In seguito, questo metodo fu applicato in molte occasioni, anche allargando il voto a tutti gli iscritti, quando possibile.

Poi, però, si cominciò ad applicare le regole per finta: il processo di votazioni sulla legge elettorale fu fatto terminare fuori tempo massimo, quando ormai era pronto l’Italicum e il MoVimento non aveva più voce in capitolo.

Infine, dopo l’istituzione del direttorio, si è smesso proprio di applicarle. Niente — o quasi — assemblee congiunte dei gruppi parlamentari, niente — o quasi — votazioni sul blog.

E così, sulle unioni civili, alcuni senatori del MoVimento prendono accordi col PD salvo decidere, senza voti né assemblee, di lasciare libertà di coscienza e astenersi sul voto finale. Non si sa chi l’abbia deciso, non si sa perché.

Federico Pizzarotti, foto da blitzquotidiano.it

Mentre su Pizzarotti si applicano in maniera discrezionale addirittura regole inesistenti, mai codificate, dopo averlo isolato con atteggiamenti che in qualunque azienda sarebbero qualificati come mobbing: non si risponde ai messaggi e alle telefonate, non si invita il sindaco agli eventi ufficiali, non gli si permette di raccontare la sua attività attraverso il portale-sede del MoVimento, il Blog.

Senza la condivisione e l’applicazione delle proprie regole, il MoVimento forse non muore, ma di certo diventa qualcosa di diverso, anche rispetto a quel principio per il quale nessuno deve essere lasciato indietro.

Senza regole, le decisioni non le prende la comunità né chi ha ragione: le prende chi ha più influenza o più carisma, chi ha più mezzi o più potere da distribuire. La regola diventa una sola, non scritta: non perdere voti, a qualunque costo.

Il MoVimento, numeri alla mano, ha la possibilità di vincere le prossime elezioni politiche; ma senza regole e senza la capacità di amministrare le complessità non sarà in grado di cambiare in meglio il Paese. Problemi complessi richiedono soluzioni complesse, perché quelle semplici sono pericolose quando non inefficaci.

Bufale, ecco perché sono redditizie.

Foto: mobify.com

E pericolose

Pubblicato inizalmente su www.ilfattoquotidiano.it il 6 maggio 2016

Laura Boldrini: “Ora di Corano in tutte le scuole”.
Egiziano entra al bar, rapina l’incasso e stupra le due bariste.
Arriva la conferma: quel detergente intimo provoca il cancro!

Queste notizie hanno due cose in comune: sono false e diventano virali sfruttando le debolezze emotive dei lettori.
 Abbiamo da poco festeggiato i trent’anni di Internet in Italia, celebrando anche la libertà di informare e informarci che la Rete ha portato: tutto molto bello, ma è ora di denunciare anche i pericoli che questa libertà, o meglio l’incapacità di gestirla, comporta.
 La circolazione in rete di bufale inventate di sana pianta è cosa nota soprattutto agli addetti ai lavori, ma temo che tra gli utenti — che ne sono le prime vittime, a volte in senso letterale — la portata del fenomeno sia tutt’altro che chiara.
Come, chi e perché diffonde bufale?

Il come è presto detto: inventare una notizia è semplice e veloce, scovarne una vera e verificarla richiede professionalità, tempo e soldi. Per ogni notizia vera e verificata se ne producono decine false. Le bufale vengono solitamente pubblicate su un sito e rilanciate sui social network e spesso hanno l’apparenza di notizie diffuse da una vera testata giornalistica.

Titoli come quelli citati prima diventano subito virali perché suscitano scalpore, rabbia o paura: chi legge è indotto a diffonderli, convinto in buona fede di rendere un servizio di informazione ai propri contatti.
Chi produce queste false notizie? David Puente di debunking.it — un sito che si occupa di verificare e smentire le false notizie segnalate — spiega che in Italia sono poche persone a gestire molti dei siti di bufale più frequentati, che fanno il verso alle testate più note storpiandone il nome per confondere il lettore.
Veniamo al perché. Scrivere e diffondere bufale è redditizio: costi di produzione estremamente bassi ed elevata diffusione dei contenuti permettono discreti profitti grazie ai classici banner pubblicitari.

C’è però un’altra spiegazione. Alcuni siti sono notoriamente legati, più o meno direttamente, a forze politiche che traggono vantaggio nel porsi come alternativa al “sistema delle lobby”. Ma è spesso un’illusione.
Ad esempio: se convinco, tramite presunte “iniziative editoriali”, un certo numero di persone che la lobby del farmaco impone le coperture vaccinali o le cure chemioterapiche per vili interessi economici a discapito della comunità, creo una base di consenso che posso sfruttare assumendo una linea di scetticismo priva di base scientifica (come “vaccinare meno, vaccinare meglio”). Il più vecchio tra i metodi di propaganda: indicare un falso problema e porsi come unica soluzione, con l’aggravante di essere pericoloso per la salute pubblica fino a causare morti. E il più vile, perché colpisce i più deboli, chi non ha gli strumenti culturali per verificare la qualità di certe notizie, specialmente quelle a carattere scientifico.

Il giornalismo, a fronte di tutto ciò, non può e non deve rimanere passivo: è un momento difficile per l’industria dell’informazione anche perché le due risorse più preziose, i soldi necessari a fare buon giornalismo e l’attenzione dei lettori, sono drenate da quelle realtà.
Se prima il compito dei giornalisti era trovare e riportare le notizie, adesso non basta più: il dibattito pubblico è drogato da queste pratiche, quando si parla di salute come quando si parla di immigrazione, ed è compito anche del giornalismo denunciarle e contrastarle. Sia nell’interesse dei lettori che nell’interesse dei giornalisti, per la loro stessa sopravvivenza.


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